Ho la posta invasa di spam, ultimamente. Va a cicli, come i ricorsi storici: per un po’ se ne resta vuota poi, di colpo, si riempie di surreali inviti. Mi ha scritto Diana veggenza stamattina:
Ho avuto anche io degli impulsi considerevoli stanotte: mi è toccato svegliarmi per andare a fare pipì. Detesto interrompermi mentre dormo. E poi questa mattina, davanti al caffè, anche la mia mente ha proiettato una visione eclatante della giornata che mi aspetta: ore sempre uguali a quelle che le precedono e a quelle che verranno. C’è qualcosa di alienante nella vita da ufficio, meno evidente di quella che si trascorre schiacciando i bottoni di una macchina utensile o assecondando i ritmi di una catena di montaggio ma comunque c’è, nella sua dinamica di decisioni da prendere, telefonate a cui rispondere, nodi da sbrogliare che poi sono sempre gli stessi e rimbalzano nello spazio di quattro mura. Tengono il cervello attivo in cose di secondaria importanza, ne soffocano l’impulso creativo, smussano i picchi, limitano gli orizzonti, ingabbiano in un processo di sole apparenze. Un articolo dell’ultimo numero di Internazionale si chiede come mai avevamo previsto che, grazie al progresso, ad un certo punto, avremmo lavorato tre o quattro ore al giorno e invece il certo punto è arrivato e noi siamo sempre lì ancorati alle otto – o più – canoniche e guai a parlare di orari flessibili. In questo caso la visione eclatante in realtà probabilmente era un miraggio. Certo, meglio che dover scendere in miniera ad estrarre carbone, non ci piove, almeno lì. Fuori invece diluvia, i sottopassi si allagano, le calze si inzuppano, i capelli si arricciano, il bucato non asciuga. Dentro i quotidiani sono illeggibili, le prospettive spaventose e desolanti, la televisione inebetente – esiste, la parola inebetente? A lezione di spagnolo lunedì una dei corsisti, insegnante di scuola superiore di materie letterarie, ad un certo punto si è messa a fare i capricci, a cinquant’anni dichiarando che non avrebbe risposto alle domandine perchè non ne era capace e mi sono chiesta se facesse per finta o per davvero perchè, se faceva per davvero, non mi sarebbero tornati i conti sulla mia visione del mondo docente e sono sempre un po’ a disagio, io, quando non mi tornano i conti. Un paio arrancavano dietro parole a loro sconosciute anche nella lingua madre, un altro professava le proprie opinioni e decantava le proprie imprese a intervalli regolari di due minuti – lo fa sempre, lo conosco, anche sua madre va in giro a dire di diffidare di lui perchè è un cacciaballe. Però almeno sua madre gli vuole bene, si presume, e lo sopporta. Gli altri già di meno. Uno ce la metteva tutta per aiutare l’insegnante a far fluire la lezione. La lavagna multimediale si interrompeva di continuo perchè internet nelle scuole c’è ma ha evidenti lacune, andrebbe rimandata. Io e la mia vicina di posto facevamo sottovoce le battutine, come a scuola. Poi pian piano sono sprofondata sempre di più nel collo del maglione, mio rifugio di eccellenza, è ho aspettato anche lì che le lancette facessero i giri, tictactictac, fino all’ora della liberazione. Aspetto liberazioni continue, Diana veggenza, sai, tra un libro e l’altro, tra una martellatina ai tasti del piano e quattro righe di racconti, tra una ricetta da sperimentare e un sabato di sole e il successivo. Questo mi aspetta, anche oggi, fino a quando non avrò terminato lo scavo del tunnel nascosto che mi porterà per sempre fuori, su una spiaggia davanti al mare. Sto usando un cucchiaino e la terra è dura: ci vuole pazienza, non magia.