-Di Carmen Gueye
Niente paura, non siamo dei Livingstone e non intendiamo tediare alcuno con lunghe descrizioni di animali esotici o usanze particolari. Molto tempo è trascorso dall’epoca delle prime esplorazioni e, in teoria, ci sarebbe ben poco di cui stupirsi.
Così almeno credevamo, chi scrive e chi la accompagnava, all’alba degli anni novanta, quando, ormai turisti rodati, quali ci ritenevamo, ci avventurammo prudentemente in Marocco.
In realtà tutto era sotto controllo, a partire dall’agenzia che ci aveva prenotato voli e alberghi; una volta sul posto, avremmo utilizzato quel poco di tempo lasciato libero dalle escursioni, per qualche cauta avanscoperta nei dintorni.
Confesso una certa emozione nel mettere piede, per la prima volta, e seppur solo nel lembo più settentrionale, in quello che una volta si chiamava “Continente nero”, il quale non rappresentava ormai più l’approdo di entusiastici incantamenti da parte di abbienti signore nordeuropee, aristocratici anglosassoni in vena di trasgressioni, americani annoiati o, nella migliore delle ipotesi, di studiosi e benefattori; ma era pur sempre un pianeta tutto da conoscere, realmente.
L’immigrazione, in atto verso l’Italia almeno dagli anni settanta, ci aveva avvicinato a quelle popolazioni, prima conosciute appunto solo attraverso la letteratura o un cinema dove, a dir poco, i ruoli erano fissati senza scampo e l’esotico deteneva un suo fermo e asfittico posto.
Qual era l’impressione, in definitiva, fino a non molti decenni or sono? Che l’Africa rappresentasse sponda per uomini di buona volontà, medici, missionari; o spazio per riversare, nella luce di un sole sferzante sopra un mare di sabbia, o nelle sue foreste punteggiate di fiumi e cascate, emozioni represse in occidente.
L’avvicinamento con scarse basi di conoscenza a volte riserva sorprese, rispetto a quello più dotto e consapevole: le emozioni giungono dirette, non mediate.
L’esperienza marocchina produsse in effetti qualche risultato.
A parte i miei furiosi tentativi di strappare alle guide – Moustapha e Mohamed – qualche informazione sulla società, le
donne, i rapporti tra individui, mi rimasero dei fotogrammi disordinati ma indelebili: la povertà, certo, ben rappresentata da tanti animali morti lungo le strade, ma anche dalle caprette che brucavano stenti alberelli; zone rurali somiglianti alle nostre fino agli anni sessanta; molti bambini desiderosi di “contatti” con noi, puntando sulla nostra generosità, che però risultava infastidita dagli ingenui assalti di quegli “scugnizzi”. Ma pure, una condizione femminile tutto sommato non così sconvolgente come ce l’avevano descritta: ragazze in motorino, impiegate in banca e poliziotte alla frontiera, tanto per dire.Il Marocco era stato ed era tante cose; a suo tempo, fu anche un set per hippy in cerca di emozioni, e tracce rimanevano a Essaouira, per esempio; un territorio non esente da dure problematiche secessioniste (Sahara occidentale) e antagoniste (antica querelle con la Spagna), un paese sospeso tra nord e sud del mondo, pronto a cambiare.
Io però non riuscivo a staccare il pensiero dal giro nei suq e nelle medine, dagli allegri ingorghi di macchine e carretti, dove non sembrava esserci posto per l’inesausto innervosirsi degli automobilisti nostrani, dagli odori forti e per me inediti, dai riflessi obliqui della luce di giorno e dalle stelle così vicine nella sera improvvisamente fredda; perfino dal ragazzo di bottega che chiedeva al mio compagno quanti cammelli volesse per i miei occhi azzurri; insomma, da quell’armamentario di emozioni, se vogliamo a buon mercato, ma per le quali si è speso il prezzo del biglietto.
Così, l’ultimo giorno, guardai con malinconia la lunga strada che da Inetzgane ci riportava ad Agadir e fotografai un cartello con le indicazioni , tra cui la meta più lontana era Dakar, promettendo a me stessa: verrò un giorno.
Come e quando, erano tutti da vedere. Il viaggio in Africa continuò sì; ma, per parecchio, solo nella mia mente.
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Gli anni passavano tra ore liete, pensieri, preoccupazioni e qualche vacanza, sempre meno sperimentale e sempre più rassicurante. Le mete europee non mancavano, tra città d’arte e località marine; viaggiare in aereo stava diventando faticoso, vuoi per l’età che rende meno tolleranti, molto perché l’aumentato traffico costringeva spesso a lunghe attese o portava disguidi che rovinavano il tanto agognato riposo; i media informavano che il mondo stava diventando sempre meno sicuro (strano, dopo la caduta del muro, nel 1989, ci avevano assicurato il contrario) e dall’Africa giungevano reportage inquietanti.
Guerre e faide aumentavano, carestie e siccità imperversavano. Fui assalita da dubbi e sensi di colpa. Aveva senso stendersi a sole in un villaggio vacanze, mentre dietro infuriavano conflitti sanguinosi? Oppure era meglio alimentare almeno una delle poche voci in attivo laggiù, come il turismo? Ma, poi, migliorava davvero la situazione di quelle genti? E che dire dei brividi “fast food” offerti al turista, quando gli promettono visite nel villaggio tribale e l’immersione totale nell’etnico, tra i nativi, in mezzo a donne col bimbo in spalla, e tu scatti, dai qualcosa, pensi che bello quel bambino lì e poi torni alla tua tranquillità di Gallarate o Reggio Emilia?