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Diario africano - 30/Storie di donne

Creato il 02 dicembre 2014 da Mapo
Lacor Hospital, 29 novembre
Margaret è una delle donne di casa che ci lavano i vestiti, cucinano gli gnocchi al pomodoro e puliscono i bagni. In un paese anglofono si dice "colf". La vedo sempre il avvolta in questo abito di servizio a quadretti bianchi e azzurri, di quelli talmente piccoli che ti devi avvicinare per vederli bene.Diario africano - 30/Storie di donneMargaret è al Lacor dagli anni '70, da quando esiste praticamente. Ha lavorato per i Corti, i coniugi medici che hanno fondato l'ospedale e che sono sepolti a pochi metri da dove tutti i giorni stende i panni ad asciugare. Ha vissuto la guerra, la dittatura, i bambini soldato e i rifugiati che ogni notte venivano a dormire sulla terra rossa all'interno del recinto dell'ospedale.
Margaret era qui quando c'era l'Ebola e la gente moriva in mezzo alla strada.
Mia madre se contasse bene i panni che ha lavato, probabilmente vestirebbe il mondo
È una canzone di Jovanotti, di quelle che si adagiano in fondo all'album e qualche volta non si ascoltano neppure. Anche Margaret, in quanto a bucati, non scherza. Secondo i miei calcoli dovrebbe avere la schiena rotta e l'umore a terra, invece quando stira i pantaloni ancora umidi della stagione delle piogge, sorride e mi insegna qualche parola di Acoli.Diario africano - 30/Storie di donne
Lillian è un'infermiera del reparto di pediatria del Lacor Hospital. Lillian indossa sempre una divisa bianca, con in vita una cintura di stoffa giallo ocra tenuta allacciata da un fermaglio in acciaio, lucidissimo. Ha i capelli lisci, ovviamente nerissimi, e quando lavora sulla testa ha un buffo, piccolo, copricapo bianco che sembra star su per miracolo e che, invece, è attaccato con una forcina. È una caratteriale, direbbero in molti, un po' burbera, persino. La mia collega Paola mi ha raccontato che è una di quelle infermiere che dietro a una parvenza di doveroso rispetto ti scruta negli occhi e aspetta un po', prima di capire se può fidarsi di quello che dici. Quando si fida, però, lo fa per davvero, e diventa un'amica. Tanto da invitarti a un po' a sorpresa alla cerimonia di "graduation" con cui il figlio Peter, un cipollino di 6 anni vestito con tanto di toga e tocco, si appresta a passare dalla K3 alle P1. A Canonica d'Adda diremmo dai "grandi" dell'asilo alla prima elementare.
Samantha ha 11 anni, un paio di fossette e le idee più chiare di quanto io le abbia mai avute in vita mia. Ha i capelli corti, sorride poco ma profondissimo e quando va a scuola, immagino, veste una di quelle belle divise colorate con stampato sopra il nome. Da grande vuole fare la dottoressa. Parla Acholi ma preferisce l'inglese, si imbarazza quando le parlo e tenta di farmi capire sbracciandosi quale tra quei signori con la giacca, seduti sul divano a sorseggiare una bibita gasata, è il sindaco di Gulu. A metà cerimonia si alza e va a comperare la fotografia di Peter con il vestito da laurea. Quando torna scopre che le hanno fregato il posto a sedere; sembra prenderla malissimo ma le passa subito, si siede sulle mie ginocchia e mi mostra orgogliosa l'espressione del fratellino dentro una semplice cornice di legno colorato. Si ricorda quel giorno, di qualche anno fa, quando era toccato e lei. Anche allora la banda aveva suonato l'inno del paese e la gente aveva marciato fino al centro della città, fatto un giro intorno all'unica rotonda per poi ritornare nel cortile della scuola a sentire il discorso accorato della direttrice.
Diario africano - 30/Storie di donne
Margaret è la mamma di Lillian e Lillian è la mamma di Samantha. Pensavo ve ne foste accorti: quelle guance paffute valgono più di un test del DNA. Sono elegantissime, sul sedile posteriore di questa macchina a noleggio. Quasi non le riconosco, smessi i panni con cui sono abituato a vederle tutti i giorni. Sono vestite a festa per questo sabato ugandese di balli sfrenati, canti e grossi pezzi di carne bollita e riso bianco da mangiare sotto un diluvio improvviso che tenta invano di guastare l'immagine di questi piccoli ometti che giocano a diventare grandi.
Ora, io non sono mica Isabele Allende o Garcia Marquez per mettermi a scrivere un romanzo appassionato sulla vita di queste tre generazioni di donne splendide e della loro orgogliosa ascesa sociale, sullo sfondo di un paese che negli ultimi 40 anni è cambiato quanto il mio in 400. Non io, ma qualcuno lo faccia, vi scongiuro.

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