Diario africano - 40/Maresa

Creato il 09 gennaio 2015 da Mapo
On the road to Kampala, 10 gennaio
L'autoradio, sulla strada verso Kampala, non funziona quasi mai. Si è appena zittita, proprio a metà di una canzone che sembrava piacere parecchio all'autista dell'ospedale che siede al mio fianco. Ha reagito grugnendo, deve essere uno di poche parole.Annoiato da questi Km tutti uguali cerco rifugio dal frastuono dell'aria che entra dal finestrino scrivendo sul telefono.
Maresa è una neuropsichiatra infantile che collabora con il CCM, un'associazione no profit di Torino impegnata in progetti di cooperazione in Africa. E fino a qui potevate arrivarci leggendo la quarta di copertina del suo libro, si chiama "Nero dolce". Più che un libro è un album fotografico senza foto, fatto di sole parole. Niente di più, ma anche niente di meno. Perché se hai passato buona parte del tuo tempo libero negli ultimi 15 anni in Uganda qualcosa ti viene voglia di scriverlo.
Maresa ha qualche ruga, degli occhiali importanti e mette spesso un rossetto colorato, persino qui dove non va esattamente di moda. Ha un sacco di vestiti variopinti, finiscono quasi sempre in una gonna lunga fin giù le caviglie che lascia scoperte due scarpe argentate e luccicanti.Maresa durante le vacanze adora andare a trovare una sua amica in California ed è stata in India, anche se quando mangia speziato le viene una strana reazione per cui perde improvvisamente la voce. Una cosa che tende a notarsi che parecchio, perché Maresa, per fortuna, è una che parla un sacco. I silenzi, quaggiù, a volte sono alienanti e ti costringono a pensare più del dovuto. Forse è per quello che tanta gente viene in Africa a cercare sè stessa, quando in fondo basterebbe una camera vuota senza Wi-fi.Maresa fuma e dice di essere vegetariana. Ha un SUV e me lo ha fatto sapere durante una delle mie invettive contro le turbomamme con il fuoristrada che suonano il clacson per arrivare prima a casa in Area C.Maresa aiuta brother Elio all'orfanotrofio St. Jude, un posto magnifico in cui a decine di bambini abbandonati, spesso con disabilità permanenti, viene restituita un qualche genere di dignità. Sorridendo, per giunta. Perché Maresa ride molto. È più giovane della metà dei giovani che conosco, ma gli anni passano per tutti, ti distrai un attimo e scopri di essere diventata "una che ne ha viste parecchie" e che si può permettere di sorridere cogliendo l'ironia persino nelle peggiori disgrazie, mentre ci si rimbocca le maniche. Più che cinismo, istinto di sopravvivenza.Quando è qui Maresa gestisce un ambulatorio sul territorio per bambini epilettici. Vengono a prenderla con un pickup la mattina presto e, dopo ore di scossoni e calura,la portano in una capanna da qualche parte nel nulla dove, come per magia, si radunano intere famiglie attorno a questi bimbi con paralisi infantili, esiti di malaria celebrale o di altre malattie che non si sanno perché nessuno ha i soldi per fare la diagnosi.Una volta ci sono andato anche io. Fuori era l'Africa, con il suo sole così asfissiante, i mattoni di fango ad asciugare al sole e i bambini che non scacciano nemmeno le mosche. Poi siamo entrati in una capanna più grande delle altre, il tetto di paglia sostenuto da due serie parallele di piccoli tronchi, e tutto è diventato fresco e buio come in una cantina della Franciacorta. O del Monferrato, direbbe lei, orgogliosa del suo Piemonte.Il tempo di dilatare le pupille per raccogliere la poca luce filtrata dalle bocche laterali e mi accorgo di essere in una chiesa. In un angolo un piccolo altare di pietra e qualche panca scomposta. Dal buio, come fantasmi, affiorano un paio di dozzine di persone.Ci sono i bambini più piccoli tenuti in braccio delle mamme, eleganti e orgogliose. Ci sono quelli un po' più grandi che guardano in basso come se li potessimo bruciare con un solo sguardo. Ci sono gli anziani del villaggio, venuti a presidiare l'incontro con la loro aria fiera e giusta, appoggiata ad un bastone di legno. A terra c'è un grosso tappeto colorato su cui siedono tutti, in attesa di essere visitati. Già, perché è qui che Maresa celebra l'ambulatorio. Illuminata da una luce alla Caravaggio, che a volte le coglie le mani magre e nervose, senza camice o fonendoscopio, sembra più un sacerdote che un dottore.Un'infermiera sovrappeso chiama i bambini che, uno ad uno, mostrano il quaderno dove con delle croci segnano di fianco alla data le crisi che hanno avuto negli ultimi mesi. Alcuni fogli sono la mappa di un cimitero affollato, in altri le croci si fanno più rade fin quasi a scomparire.In questo che ho davanti, per esempio, dopo un inizio faticoso con almeno due crisi epilettiche a settimana, la pagina si fa completamente bianca da metà novembre in poi. "Vedo che la terapia sta funzionando" - dice Maresa."Non abbiamo più la penna per scrivere" - risponde la mamma, imbarazzata.
Era anche sposata, una volta. O forse di più, non ho chiesto. Adesso gioca a fare l'onorevole peppone con brother Elio in un divertito scambio di ruoli per cui, a sto giro, con buona pace di Guareschi, la pancia ce l'ha lui.Li prendo in giro dicendo che sembrano due vecchi coniugi, ma lo sanno da soli. Lei gli ricorda la dieta e risponde al telefono quando è troppo stanco, lui le affida le sue commissioni, che qui sono cose che vanno dal decidere la dieta per i bambini dell'orfanotrofio al trovare il modo di seppellire un paziente appena deceduto in ospedale, con tutta la famiglia che pende dalle tue labbra. Non so perché, ma faccio fatica ad immaginarli l'uno senza l'altro, sin quasi a invidiarli un po'. Eppure Maresa sta per tornare a casa, tra qualche ora un volo di linea la traghetterà nel freddo del nord Italia.
L'autoradio, nella lunga strada verso Kampala, ha improvvisamente ripreso a funzionare. Una voce maschile in un notiziario sportivo ha appena detto che il Torino ha vinto contro un'altra squadra che non ho capito. Buon viaggio, Maresa.

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