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Diario di Barcellona II, di Andrea Sartori

Da Fabry2010

Diario di Barcellona II, di Andrea SartoriIl mattino trascina con sé brani della notte. Dalla notte, a dire il vero, la città non esce mai.

Un lieve stato sonnambulico ti accompagna anche quando scendi a fare la spesa al piccolo supermercato sotto casa, gestito da un cingalese che ormai, quando ti vede, ti saluta con un identico bofonchio: «Buenos dia, italiano».

Poiché ogni notte aspetta un’alba, l’atmosfera notturna di tutti i palazzi, indipendentemente dalla loro età, è l’eterna promessa di una nuova giornata.

Così non hai mai l’impressione di consumare nulla, poiché sai che qualcos’altro arriverà, a sua volta gravido d’un domani.

Le occasioni mancate si sprecano, e tu permani in un gioioso stato di dissipazione.

La colazione che preferisci lasciare a metà in soggiorno, per uscire a terminarla da qualche parte sulla Rambla. Il quotidiano sfogliato solamente fino alle prime pagine. I locali undegorund che una sera trovi, e la successiva spariscono, risucchiati in facciate cieche d’edifici vuoti, buchi neri mobili come i tuoi passi. I mozziconi ancora accesi, sotto le suole delle tue scarpe.

E i sorrisi delle donne, intravisti agli angoli ripiegati delle loro labbra, d’un lampo scomparsi.

L’incompiutezza è una forma della perfezione.

Da El paso, l’anziana dietro il bancone ti guarda da sopra gli occhiali scivolati per intero sulla punta del naso. Con la distensione di una mano, quasi dispiegasse un mantello invisibile, ti mostra i recipienti refrigerati delle tapas, sotto il vetro scorrevole della barra.

«Que quieres, caballero?»

Ti volti dall’altra parte ed esci.

«Che cosa voi?», ti mormori addosso, incapace di prendere una decisione.

Forse è giusto così. Lasciare intentata ogni cosa, evitare con cura di realizzare alcunché, fuggire le conclusioni, non trarre mai le conseguenze. In che altro modo potresti destinare le cose a un avvenire migliore, se non evitando di pensarle, o di farle, fino in fondo? Quale futuro più glorioso, se non per ciò che è assente?

Chi ti circonda pare essere, come te, al di là della speranza e della disperazione. Non la speranza, poiché anch’essa avrebbe un termine. Non la disperazione, poiché sarebbe solo il nulla.

Sali su un taxi, e chiedi di portarti al Poble Nou.

A metà corsa, sulla Ronda del Litoral, fai fermare la vettura. A piedi ripieghi nuovamente verso il Born. Due motociclisti della polizia municipale occupano la strada, le moto di traverso a bloccare il passo di due nordafricani. Dei documenti, simili a vecchie cartacce, vengono estratti con indolenza dalle tasche. Difficoltosi scambi di battute. Le parole che circolano sono come quelle dei bambini. «Io malo, tu bueno», dice ironicamente un motociclista ad uno dei fermati che accenna una protesta: «Yo no… yo no…!». Cani lupo s’aggirano tra le tue gambe veloci, museruole d’acciaio serrano le loro mascelle ringhiose. I tutori dell’ordine hanno i polsi fasciati da guinzagli nodosi, intrecciati fin sugli avambracci.

Gli uomini e i cani coabitano sotto l’emblema della forza. Tu ti astieni dall’intervenire, e preferisci indugiare su altri messaggi: «Odio la regalidad», ti dice una spogliarellista in pausa davanti al Fellini; «Night that Minnie Timperley died», ti ricorda un dj electro-pop in pensione; «Jesucristo tu unica esperanza», ti soffia nell’orecchio un paralitico sulla sedia a rotelle, mentre ti allunga un ciclostile macchiato d’inchiostro.

Un’ombra di malessere che s’affaccia allo stomaco, ti fa ricordare che hai lasciato l’Alka-Seltzer sulla scrivania, sotto i giornali della rassegna stampa.

Possibile che tu sia così invisibile, e che nessuno abbia niente da dire in proposito? Possibile?

Ovunque è una sovrabbondanza di nervi scoperti: i fili della biancheria tesi tra le finestre, i cavi della luce pendenti dalle insegne, i colpi di tosse che scuotono i petti, e le spalle. Per la strada ti senti a casa, in mezzo a cicatrici come le tue, a bulbi scoperti ancora sanguinanti che chiedono solo di stare loro accanto, in silenzio. Come in un grande appartamento in cui non ci si saluta, solo perché ci si conosce già tutti da una vita.

Dei passi risuonano intorno a te sulla pietra, e la loro eco viene ripresa nelle tue tempie. Analogo incedere, analoga pulsazione, nella tua testa e per la strada.

Al mercato della Boqueria, i polipi ti guardano sornioni dai bancali freddi. Alcuni agitano ancora i loro tentacoli, in una buffa reazione galvanica alla morte già avvenuta.

Li guardi sorridendo, cerchi i loro occhi al di sotto della sfera oblunga delle grosse teste. Agiti quindi una mano e li saluti, in risposta al loro tenero e gelatinoso gesticolare involontario.

Blocchi questo gesto patetico a metà, prima che qualcuno inizi a farsi troppe domande, e ti avvicini.

Chiedi ai pesci quanto è distante il mare.



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