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Diario di Barcellona III, di Andrea Sartori

Da Fabry2010

Pubblicato da Andrea Sartori su ottobre 20, 2011

Diario di Barcellona III, di Andrea Sartori
«Io è un altro».

Gli vennero in mente queste parole di Rimbaud, quando si guardò nella specchiera ottocentesca del Grand Cafè Restaurante della vecchia Calle Ferran.

Volgendo poi lo sguardo alla strada, gli parve di vedere ancora se stesso: nella senzatetto che si arrotolava le mutande in vita dopo aver pisciato in un angolo già irrigato da un cane, nelle grida disarticolate di due tedeschi ubriachi, nel sorriso ammiccante di un omosessuale che tentava di sedurlo a distanza.

Avrebbe dovuto essere «un altro» più spesso.

Come la sera prima, ad esempio, quando, mentre rimestava il fondo di un mojito accucciato su di uno sgabello di Malpaso, entrarono nel locale, ridendo senza ritegno, sette ragazze olandesi, in città per le sfilate di Passarel-la. I giovani spagnoli che erano con lui si erano ridestai ad una nuova vita, sperando improvvisamente in un diverso destino per la loro notte. Allora, però, egli non seppe sfilarsi dal viso la pellicola trasparente che lo separava da se stesso. Doveva rientrare nel suo piso, e mettersi a lavorare alla scrivania, senza troppo alcool in corpo, e senza l’enfasi della carne a disturbarlo.

Ma era poi, ciò che avrebbe dovuto scrivere, meno carnale di quelle risate e di quelle spalle nude, di quelle bocche e occhi grandi sgranati nella nebbia delle sigarette, al lume debole di un pugno di lampade incerte?

Gli venne voglia di tornare da Charo. Lei gli aveva promesso che gli avrebbe preparato degli spaghetti a la bolognesa, con il sugo cucinato da lei stessa.

Si ritrovò così nel letto della donna, dopo la corsa in un taxi che aveva agguantato davanti al porto. Charo aveva quindici o forse anche più anni di lui, e tutte le volte che compariva davanti alla sua porta, lei saltava di gioia. Le piaceva passare qualche ora con quegli uomini giovani che di tanto in tanto venivano a bussare. Loro le davano un po’ di vita, lei ricambiava con la sua esperienza, e con un po’ di morte anticipata. Era il giusto pegno per un piacere sopra le righe, strappato ad una vita perfetta, che non prevedeva altro che la sua perpetuazione, nei limiti del possibile. Charo lo baciava sulla bocca, inseriva la lingua, stava qualche minuto lì, a frullare dentro di lui, stringendoselo al seno. L’andaluza non si aspettava niente, né da lui, né dagli altri. Non c’erano né un prima né un dopo, sulla scena del loro piacere, non c’era attesa, non c’era nostalgia. Solo presenza.

E lui in quella presenza trasmutava.

Anche più tardi, quando si trovò ad arrotolare gli spaghetti di Charo sui denti di una forchetta di rame, non gli importava prometterle che sarebbe tornato un’altra notte, e poi un’altra ancora.

Glielo promise, certo, ma lui sapeva che lei non gli credeva. Ad entrambi andava bene così.

Era ormai l’alba quando si coricò sul proprio cuscino. Non tutti gli inquilini erano rientrati. Mancava ancora quello dell’ultimo piano.

Poco prima di addormentarsi ne riconobbe il passo sulle scale, ma anche l’inconfondibile ansimare dopo dieci rampe. Lo riconosceva all’istante, quel respiro corto, sfiatato, che sembrava sbuffare gli ultimi aliti di vita d’una carcassa rovinata.

Nella Calle, anche di giorno, tutti parevano ansimare allo stesso modo. Eppure, ai suoi occhi, nessuno pareva avere alcunché di preciso da fare, o alcuna meta da raggiungere. Non il commerciante pakistano nell’Unico perennemente vuoto, non la vecchia sepolta in un cappotto di montone, gli occhiali dalla montatura grigia, i denti sporgenti e sbeccati.

In quali case abitavano costoro? – si chiese, mentre ormai il volto sorridente di Charo s’intrometteva nelle immagini involontarie dei suoi sogni. Ancora una pennellata di notte, e non avrebbe più pensato alcunché. Sarebbe stata la notte a pensarlo.

Ma intanto: «Dove abitano costoro»? In case identiche alla sua, con le stesse facciate pericolanti, gli stessi impianti di riscaldamento che paiono non voler essere disturbati, per non sprecare inutilmente energie, in una città che vive a diretto contatto con il calore della terra, e delle epoche che l’hanno stravolta in un continuo sfregare degli istanti gli uni con gli altri?

«Dove abitano… loro… gli altri?»

Charo ormai gli si faceva incontro, a braccia spalancate, «Hombre… guapo… a qui…», e finalmente lo sommerse tra le sue braccia.

Intrecciando ora le mani dietro la nuca di lui, Charo rideva come dieci, venti, cento, mille modelle olandesi.


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