“Diaz”, poco sangue che cola e manganellate di gommapiuma

Creato il 20 aprile 2012 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Era senza dubbio uno dei film più attesi della stagione, dei più chiacchierati e discussi per il tema trattato e la concessione dei finanziamenti del Mibac. Di conseguenza le aspettative del pubblico crescono a dismisura, e gonfiano in attesa di poter gongolare giunti ai titoli di coda. Io avevo molte aspettative e mi sono seduto su quella poltroncina rossa pronto ad essere stupito e schifato, scioccato e percosso dalle immagini, forse anche inondato da un fiume di sangue. Ora  - a scanso di equivoci e fraintendimenti – ci tengo subito a dire che Diaz di Daniele Vicari è un buon film, audace, coraggioso, battagliero. Ma dico anche che qualcosa non va…

A Daniele Vicari va senza ombra alcuna riconosciuto onore e gloria per aver condotto a termine un film così difficile con scelte valide e impavide. Dai tempi di Velocità massima è cresciuto, e Diaz è certamente l’opera che sancisce la sua maturità, un giro di boa importante. Con questo, stento a definire Vicari un “autore” e non nascerà nelle prossime settimane l’aggettivo “vicariano”. Questo perché a Vicari manca qualcosa. Cosa? La continuità. Diaz è un’opera discontinua, che procede a corrente alternata sia dal punto di vista estetico/registico (nel senso tecnico del termine) sia contenutistico. Vicari ha delle piccole grandi trovate alla mdp, che compie alcuni movimenti di assoluto interesse (la panoramica dall’alto sulle auto della polizia che sfilano per Genova, le sequenze nei corridoi e nelle aule di Bolzaneto, ecc.). Ma a queste si alternano passaggi anonimi, piatti, che in alcuni casi, tra una manganellata e l’altra, suscitano pure qualche sbadiglio. Forse inoltre ci potevamo aspettare più sangue, più violenza, anche al limite dello splatter? Sì, forse sì. E in parte io me lo aspettavo. Ma non c’è. Vicari fa tanto, ci colpisce alle costole, ma talvolta si ha quasi la sensazione che il manganello sia di gommapiuma, come il giocattolo di un clown col casco blu. Quella spranga rigida e nera colpisce, ma non fa il male che ci si aspetta nel vederla “in volo” prima del contatto con corpi in attesa del mattatoio.

Così come paga uno scarto forte l’accostamento di immagini di repertorio o da videocamere amatoriali a sequenze di fiction. Le prime sono crude, e fanno davvero paura, mentre le seconde a tratti sfiorano il ridicolo, quasi il comico o il televisivo (passatemi entrambi i termini e non so quale dei due sia più dispregiativo).

Insomma, manca una certa scelta visiva disturbante, vessatoria, che zoppica e cammina salda. Anche questo manca per una confezione coi fiocchi dell’opera.

Detto questo, merita in primis svariati applausi la sceneggiatura, che vede un ponderato e copioso lavoro sugli atti processuali. Emerge anche una certa oggettività, generata da verità scritte da mettere in scena senza tante interpretazioni ma col solo ausilio e beneficio della libera composizione estetica dei fatti. E dà i brividi pensare che certe frasi dette o eventi mostrati (l’inserimento dall’esterno di molotov sul “luogo del reato” della Diaz o il poliziotto bastardo che finge l’accoltellamento interpretato da Alessandro Roja) siano stati reali, siano veramente accaduti. Un caso esemplare di quando la realtà supera la finzione, e fa paura. Una sceneggiatura che però – ecco un altro nèo – si fa interessante sulla lunga distanza. Saltare avanti e indietro nel tempo, da un’ora più ad un’ora meno, conduce ad una ripetitività che mischia con incertezza stemperamento e rilancio della tensione. E’ interessante vedere diversi punti di vista di un evento, ma alla lunga portano con sé un certo sintomo di vacuità.

Il lavoro alle musiche condotto da Teho Teardo è imponente, tanto che possiamo definire la colonna sonora il vero e costante bostik della pellicola. Sibila e sfreccia ai bordi delle nostre orecchie, ci infastidisce e delizia da più angoli della sala, ci graffia, finchè il nostro cuore prende quasi a battere seguendo il suo ritmo.

Così come è da segnalare il montaggio di Benni Atria: ansiogeno, serrato, descrittivo.

Ma viriamo verso la conclusione. Riassumendo, Diaz è un film che si ciba e abbevera di certe immagini forti, che descrive e racconta con crudezza manichea. Un film di grande impegno civile, da vedere, con vari lati positivi, ma anche alcune ombre che non si eclissano. C’è qualcosa che rimane sospeso, nell’aria, che non trova attracco in quella Genova in rovina tra Piazza Alimonda e la piccola scuola degli orrori chiamata Diaz. In sospeso proprio come quella fastidiosa bottiglia in uno sporco e sgamato digitale che apre il film e torna ciclicamente come un inspiegabile e inspiegato leit motiv.

Per Vicari è una questione di personalità, espressa al 75%, come se si fosse trattenuto, impaurito o volontariamente, dal dare libero sfogo alla sua vena creatrice. Manca quel passettino più lungo della gamba che in questo caso è necessario per pungere, graffiare, ferire (a morte) il pubblico.



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