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Diego Conticello - Barocco amorale

Da Ellisse

Diego Conticello- Barocco amorale - LietocolleUn'opera prima, anche questa di Diego Conticello, di cui IE ha già pubblicato la bella nota su Lucio Piccolo (v. QUI), autore a cui Diego ha dedicato gran parte dei suoi studi.
Nella sua breve prefazione, Silvio Ramat pone l'accento su un paio di evidenze, riguardo a questo libro: l'una riguarda la sintassi poetica novecentesca (e direi ermetica, come ammette lo stesso autore), cioè per così dire di un canone rivisitato; l'altra la deformazione del lessico, il neologismo, a cui l'autore ricorre spessissimo, e forse con una certa compiacenza. All'incontro delle due, dice Ramat, si crea un tensione, un vortice in cui le parole si sciolgono "dalla semi-automatica sistemazione e neutralizzazione entro i codici dei significati correnti". Ovvero, mi par di capire, è la messa in opera di una azione di "poetizzazione" di una lingua "comune", altrimenti poco connotativa o almeno usurata, ma comunque parte dell'identità del poeta. D'accordo, ci sono  tendenze sempre presenti nella poesia italiana, in relazione al linguaggio, che vanno in direzioni opposte, e Conticello adotta una di esse, l'innesto di nuovi elementi lessicali. di linguaggi quotidiani o tecnici o spuri (e nel suo caso anche dialettali) in un tessuto sostanzialmente tradizionale, seppure "sformato", cioè con una versificazione del tutto libera.
Ma aggiungerei qualche altra considerazione, a partire da quelle di Ramat. Una riguarda un "effetto", per così dire, prospettico. Proprio questo intersecarsi di piani (uno che potremmo definire verticale, quello della sintassi novecentesca, l'altro orizzontale della  serpeggiante inquietudine nervosa del lessico) suggerisce, nei testi migliori, un paesaggio a tratti metafisico, ove elementi perturbanti aprono uno sguardo, attraverso architetture note, su uno scorcio di "realtà" che sta dietro le cose. Come, parecchio alla lontana, in un quadro di De Chirico. Forse l'intenzione non è proprio quella, se Conticello avverte che la sua ossessione, prioritariamente, sta nel "ricercare originalità nella parola stessa, dato che ormai in poesia è stato detto tutto". Tralasciamo il fatto che, se questa ultima affermazione fosse vera, la poesia sarebbe morta da un pezzo o sarebbe solo estenuante ricerca di nuove forme di quel "già detto", o l'originalità trovata non esprimerebbe niente di esprimibile. Ma resta il fatto (positivo)  che al di là delle dichiarazioni di poetica (sempre rischiose e sempre per molti versi reticenti) negli esiti migliori si realizza poi di fatto un equilibrio tra mezzi e fini, si raggiunge un ascolto di sé, delle proprie motivazioni affettive e morali, anche al di là di certi assiepamenti di (neo)parole o di aggettivi. Per altro, aggiungerei, compressi - come logica conseguenza di questo lavoro di "riduzione" della parola - in testi per lo più brevi, quasi una condensazione (proprio nel senso freudiano del termine) ove elementi diversi magari anche inconsci riescono a manifestare "una accelerazione del cuore" (Ramat). E' la condensazione che non sta nel vocabolo "costruito", ma quella che lo stesso Conticello riconosce nella sedimentazione antica del  dialetto, come nel momento in cui,  in "Rreschi amari", lo mette davvero  in musica.
Certo qualche riflessione su alcuni punti critici Diego deve averla fatta. Perchè se il libro presenta discontinuità (immagino che raccolga testi scritti in tempi e situazioni diverse), qualche ingenuità e qualche eccesso verbale anche troppo "barocco", gli inediti che è possibile leggere QUI costituiscono una innegabile maturazione, una maggiore consapevolezza, come ho già scritto, nel rapporto tra realtà e pensiero, tra osservazione e riflessione, ma anche della parola come mezzo ancora "rispettabile", come strumento che ancora offre, se lo si interroga adeguatamente e adeguatamente si controlla, delle grandi opportunità. (g.c.)
Diego Conticello- Barocco amorale - Lietocolle 2010

Silenzio

Taci se non hai mai

scritto d’amore,

un ridace silenzio

nega d’aver rivisto

le labbra sulfuree

della tua donna

o le sue mani

uncinarti

nella respirata

smorfia di un abbraccio.

Vivi a muta disforia

se non hai detto.

Obliquo oltremare

Ah, l’obliquo

socchiuso

delle tue palpebre

nell’oltremare

di notti di marzo,

ha già seguito

le linee del volto

che disgrega

(perdendo e ritrovando)

se doni.

Lasciati i paraventi

Non mi ha cercato

stanotte

transito d’oscurità incosciente,

così t’ho meditata

ora – lasciati

i paraventi –

(solo di fronte

alla vita)

è voglia

d’abbandono,

oblìo in te.

Naturali ossimori

Il bosso tagliato

con esattezza,

l’ibisco non sbocciato

è indole

del mio tempo,

mentre erompe

– sottomessa –

altezza della foglia

di platano,

una spiga

annerata sull’onda,

soffioni di pioppo

nel vento.

*

Quando pioggia scroscia

irruente

alle imposte semichiuse

e forse vuole ancora perciare

quell’ultima lastra

impercettibile

con saette che hanno suono

di schiocco,

t’avvedi che sferza incurante

gracilità d’un petalo,

scava

– con costanze

inattese – stridenti abitudini

di giornate troppo quiete.

Se potesse

spogliare

questa terra

da ogni inganno…

*

Ho invidia di lucertole

sui muri scorticati,

verso il sole,

che rade si muovono

attendendo

miracolo che riveli

l’assoluto.

Ad ogni pagina

un nuovo cruccio

s’addensa:

la parola

svelerà

almeno un lembo

d’incompreso?

E forse

non ne ho invidia

quando raro

muovo quel prodigio

che trapela,

ma non spoglia

l’infinito.

Perenne liquidare

Signato da

perenne liquidare

lastricato non balza,

ma scroscia

creste assonnate

e non sai dove smetta,

se in smalto di gora lacustre

o a strapiombo

in ridosso

su lo stecco

(liscia serba

ogni roccia che assaggia).

Fiato

è un rivitare

alla foglia che ricade,

che discende,

al passo su travi interrate

spruzza il tavolato vivo…


   pace

   sull’orlo

   d’una sera.

Il vento, la spina

Questo vento

oscuro

mi ha preso

alle spalle,

scintillare

di spina

ormai sferrata.

Ho abbandonato

le mie unghie

nella carne,

traversando

dighe cucite

sull’insofferenza.

Puntofobia

Chiama una lampada

accesa

a sondare

la linfa dei morti,

altro non avete

molestia da acedia.

Se avessi

metrìe impercepite

da ragno

attuerei

calcolate

uccisioni.

Rreschi amari

Scuro,

isolitario,

accugnato

fra malati muri

a vanelle vive

crepolati.

Nu vientu lascu

- annuttatu-

m’accarizza,

allintannu

comu l’abbutuliari

di ‘na vuci.

Sbattuta di lanterna

e di friscu accaluratu

chi trasi ‘nte ngunagghia,

affossa sincopando

quei gravemi,

‘ddi rreschi amari

chi s’assuppunu ‘u sapuri

livannucci

‘u piaciri.


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