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Dieter Schlesak – Il farmacista di Auschwitz

Creato il 24 gennaio 2012 da Marvigar4

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   Oggi, 24 gennaio, alle ore 17.30 a Lucca, presso la Sala della Rappresentanza del Palazzo Ducale, in occasione delle iniziative per il Giorno della Memoria si terrà la presentazione del libro di Dieter Schlesak Il farmacista di Auschwitz, con la presenza dell’autore.

   «Il possente libro di Schlesak – in cui c’è un unico personaggio immaginario, il deportato Adam, che tuttavia riferisce fatti oggettivi e parole realmente dette da vittime e da boia e in cui il narratore è solo un impersonale protocollo di eventi, deposizioni e dichiarazioni raccolte – è un indimenticabile affresco del male, degno dell’Istruttoria di Peter Weiss e, nella sua secca sobrietà epica, altrettanto intenso.»

dalla prefazione di Claudio Magris

   Viktor Capesius, il farmacista di Auschwitz, seleziona personalmente le vittime da mandare al rogo, le fa spogliare per mandarle a morire, distribuisce dosi di Zyklon B, il gas letale.
   Fra i condannati, non solo sconosciuti, ma anche tanti suoi antichi vicini di casa della cittadina rumena di Sighișoara, gli stessi che in una fotografia degli anni Trenta lo circondano sorridenti in uno stabilimento balneare. Tutti suoi compaesani, come Ella Salomon che da ragazzina entrava nella sua farmacia per ricevere in dono qualche caramella, e che ora si arrampica fino alla piccola feritoia del vagone dei deportati per cercare un po’ d’aria, nel tentativo di non impazzire; il dottor Mauritius Berner, che appena arrivato al campo si vede strappare dalle braccia, mute e atterrite, le sue gemelline di soli sei anni, che moriranno poche ore dopo; o Adam, il deportato costretto a entrare a far parte del Sonderkommando Crematori, un uomo che ancora oggi, dentro di sé, custodisce ricordi che sono come bestie nere.

http://www.garzantilibri.it/default.php?page=visu_libro&CPID=2730

   Baila: « … Oioi, è un dulure, che non tace mai. E l’ho qui, nel mio petto, qui dentro, il grosso dulure, il sentimento, vorrei poter piangere, sempre piangere, ma non posso neanche questo, posso solo continuare a vivere così … e posso solo aspettare la morte … Non sono finita nella camera a gas, il buon Dio questo non l’ha voluto: io dovevo sopravvivere, dovevo tornare … ma per cosa? Qui nel ’46 non c’era più una ebrea, la nostra casa distrutta, ciò che avevo avuto, sparito. E i miei figli, la ragazza e il maschietto, dei bambini così buoni, non li ho più visti e nessuno ha saputo dirmi dove sono finiti, dove sono morti, i piccoli, loro hanno chiamato per l’ultima volta la loro mamma, e la mamma non c’era, era da un’altra parte, oioi. E quando fummo di nuovo a casa … è andata così, così. Ma noi eravamo kaputt, distrutti .. Noi abbiamo vissuto come macchine. Tutto è andato meccanicamennte, come da solo, io non ho più sentito nulla, perché noi eravamo completamente kaputt. E questo non ha più potuto ripararlo nessuno, mai più nessuno. A che serve lamentarsi? Questo è un dulure fino alla morte. Sì. Loro lo chiamano dolore e io dico sempre dulure … Quando da noi viene una festa, allora c’è di nuovo il dulure più grosso; sì, non va via, perché dei miei non c’è più nessuno. Allora mi siedo sempre nella stanza e penso a com’era e a com’è oggi».

Il farmacista di Auscwitz, pag. 414



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