A cura di Joan Leo
Sin dai primi anni di vita del calcio ci si interrogò sullo “status” del calciatore: votato al puro dilettantismo o professionista? Ancora nel 1909 il primo vero regolamento organico del gioco del calcio emanato dalla Federazione statuiva, senza ombra di dubbio che “i giuocatori iscritti alla Federazione devono essere dilettanti.”
Se quindi l’impostazione federale era chiara e univoca, le società più facoltose tentarono sin da subito di accaparrarsi i servizi dei giocatori migliori pagandoli o offrendo loro un posto di lavoro poiché non era consentito ad un calciatore giocare per una squadra che non fosse della città di residenza. Negli anni dei pionieri, il Genoa fu spesso al centro di “casi” eclatanti, come quello del gennaio 1911 quando venne multato di £ 500 per aver stipendiato nel campionato precedente l’inglese Swift. Non solo. Ancora il Genoa fu al centro di un altro scandalo nel 1913, quando scoppiò il caso dei giocatori Sardi, Fresia (già al centro di altri casi di professionismo negli anni precedenti) e Santamaria e venne ancora più pesantemente multato dalla Federazione per “recidiva in atti di professionismo”.
Erano quelli, caro Frankie, anni di grande evoluzione per il calcio italiano, c’erano squadre – Pro Vercelli su tutte – che dettavano legge sul campo da gioco e altre – le più ricche, Genoa su tutte – che tentavano in ogni maniera di arginare lo strapotere dei piemontesi. Anche sfruttando le indubbie capacità economiche di cui disponevano agendo là dove i regolamenti apparivano più lacunosi. Molti anni prima del calciomercato, dunque, alcune società presero l’abitudine di “trasferire” giocatori per motivi di studio o di lavoro: il cittadino per andare a lavorare si trasferiva a Genova e – guarda caso – trovava una casacca del Genoa pronta da indossare. Come spesso accade – oggi come allora – ci si fa prendere la mano con facilità e in quel 1913 ben tre giocatori dell’Andrea Doria stavano per passare al Genoa: difficile giustificare la migrazione legandola a motivi di studio o di lavoro, essendo le due società entrambe della stessa città!
Il problema fu che si venne a sapere e subito il Corriere della Sera e il Guerin Sportivo cavalcarono la polemica e l’indignazione degli sportivi:
“Che il professionismo larvato si fosse da vari anni insinuato tra le file, che dovrebbero conservarsi dilettanti, dei footballers italiani, era ben noto (…). La rivalità tra i vari clubs, spinta a volte all’eccesso, aveva a poco a poco creato il professionismo. Alcuni giuocatori, fra quelli che venivano in Italia dall’estero, erano stipendiati dalle società che volevano con essi rinforzare la propria squadra; altri giuocatori italiani, di valore, erano facilmente corrompibili (…). L’attuale Federazione ha già dimostrato di volere epurare l’ambiente dei falsi dilettanti.”
Il Genoa venne colto sul fatto e durante l’assemblea federale straordinaria del 13 luglio il genoano Pasteur dovette ammettere che il proprio club aveva pagato Sardi e Santamaria per giocare con i colori rossoblu. L’assemblea votò quindi il seguente ordine del giorno:
“(…) udite le esaurienti spiegazioni date dalla Presidenza federale e dalla Commissione d’indagine, plaude all’operato di entrambe e approva incondizionatamente le deliberazioni prese dalla Presidenza federale a carico del Genoa Club e dei giuocatori Fresia, Sardi e Santamaria, invitando la Presidenza stessa a proseguire nell’opera di epurazione intrapresa per sradicare il professionismo, ovunque imperi. (…)”
Il dibattito era vivace. C’era chi guardava a De Coubertin e c’era chi guardava all’Inghilterra, patria del professionismo “pallonaro” già dal 1885. Poi, all’improvviso, tutti dovettero guardare l’orrore della guerra e di professionismo non se ne parlò più.