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Dimmi che cosa fai in internet e ti dirò che malattia hai (...imperdibile...)

Creato il 09 ottobre 2014 da Tafanus

Dall’epidemia di selfie al dito anchilosato per “refreshare” notifiche. L’abuso di Instagram, Facebook e WhatsApp scatena nuovi malesseri (di Costanza Rizzacasa d'Orsogna - IoDonna)

Dimmi che cosa fai in internet Illustrazione di Valeria Petrone   All'inizio - tenerezza - le chiamavano tutte social networking syndrome. Era l’alba di questi anni Dieci, quando Facebook & Co. venivano liquidati a trend di ragazzini e gli effetti del loro uso smodato non ancora scandagliati.

Oggi la scienza lo conferma: un utilizzo compulsivo può alterare il sistema nervoso, scatenando deficit d’attenzione e iperattività, dismorfofobia, disturbo bipolare e ossessivo compulsivo. Perché Mark Zuckerberg, Jack Dorsey e Kevin Systrom hanno cambiato il mondo, ma anche modificato la percezione di noi stessi e del pianeta. E se alcune patologie da social hanno conseguenze più triviali, come il feed di Instagram cronicamente vuoto per il terrore di selezionare il filtro sbagliato (filter phobia), o il dito atrofizzato dal continuo refreshare le notifiche di chi va in crisi se un tweet ottiene meno di dieci stelline (obsessive checking disorder), altre ci stravolgono la vita.

Fear of Missing Out (FOMO)
È la versione 2.0 dell’erba del vicino: il timore che tutti si stiano divertendo tranne noi, che abbiano carriere più brillanti e più appaganti della nostra. È l’invidia per la vita degli altri, che immaginiamo glamourissima perché tale è sbandierata in foto e status (“Omg! Che festa da urlo”). Così diffusa, FOMO, che ha fatto breccia anche nell’Oxford English Dictionary. Scorriamo ininterrottamente la timeline, anche di notte e sul wc, stalkiamo le photogallery di “amici”. E andiamo in panico. Per gli psicologi, FOMO scatena insoddisfazione, insicurezza e senso d’inferiorità, nei casi più gravi depressione e alienazione. Senza capire che è solo teatro: che le vite degli altri, quando le guardi da vicino, sono banali, ahinoi, come la nostra.

Hashtag mania
Che lavoro fai? Aspirante twitstar. In un mondo che si prende sul serio tanto da organizzare cerimonie per premiare il tweet dell’anno, questa è la vera pandemia. Un tempo ristretta al popolo di Twitter, oggi, per l’invidia fra i social (ne soffrono anche loro, che credete), infetta utenti di Instagram e Facebook, modificando il nostro linguaggio quotidiano. Scriviamo hashtag nelle mail al capufficio, credendoci geniali mentre passiamo per dementi; facciamo cancelletti invece che politica (chiedere al Pd). Se superate i tre per tweet, siete già malati.

Typing Awareness Anxiety
È l’ansia che ci prende quando in conversazione su WhatsApp appare la scritta “Sta scrivendo”, o su iMessage dell’iPhone la relativa nuvoletta. E poi scompare, perché l’altro si è fermato, pensa, prende una telefonata. Sarebbe naturale, invece è suspence infinita. Che diventa umiliazione se “Sta scrivendo” non riappare più. Per non parlare del sospetto quando, dopo tutto il tempo passato a digitare, ci arriva solo una faccina. Che cosa aveva scritto che poi ha cancellato? Che cosa mi nasconde? Perché lo “Sta scrivendo”, ha ironizzato sul New York Times Jessica Bennett, è la più grande fonte di speranza e insieme la più grande delusione del nostro quotidiano. Tirannia, la nuova condizione umana. Siamo affamati di contatto, ci tocca l’emoji del porcellino. Disattivate le notifiche, pietà.

Mystery of Missing Out (MOMO)
La paranoia che scatta quando gli altri non postano più. Perché non aggiorna? Davvero si sta divertendo tanto? E con chi? Dove? E perché non vuole condividerlo? Non le piaccio più? La nostra vita non è mai stata così vuota. Più subdola di FOMO, MOMO rischia di trasformarci in stalker anche offline. Perché sentirsi esclusi, da un follower come da un fidanzato, fa star male. Senza pensare che magari fanno così per darsi un tono (mi si nota di più, eccetera), o che - vedi mai - stan lavorando.

Selfie syndrome
Che se ne sia fatto uno anche un macaco, e un tipo rigido come Benedetto XVI, la dice lunga sul rischio di contagio. Chi ne soffre, vede opportunità di selfie in ogni superficie riflettente - dallo specchio del Bancomat agli occhiali del tipo urtato per strada mentre è in preda al raptus da retweet. E se si è rivelato bufala l’annuncio che l’American Psychiatric Association aveva catalogato la “selfite”, non lo è che il selfie compulsivo porta al disturbo narcisistico della personalità (oltre all’indolenzimento dei muscoli orali per le continue pose a derrière di gallina). Tanto diffuso ormai da esser declassato a condotta normale. Così nascono gadget per il selfie, come il bastone per tenere lo smartphone a distanza, che impazza in Giappone, o la spazzola-custodia dell’iPhone per scattare mentre ci pettiniamo. Fino al selfie sombrero rosa confetto glitter della Acer, da ruotare per il profilo migliore. Mai più senza.

Costanza Rizzacasa d'Orsogna

2409/0630/0800


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