Narratore italiano spesso trascurato nelle antologie, Dino Buzzati (1906-1972) è autore di uno dei non tantissimi capolavori letterari del nostro '900, Il deserto dei Tartari (1940). Estremamente lineare la trama: Giovanni Drogo consuma l'esistenza nella fantomatica Fortezza Bastiani, ai margini del deserto e di un imprecisato impero, nell'attesa di uno scontro decisivo contro i Tartari; il nemico però giungerà solo quando il tenente Drogo sarà ormai troppo anziano per combattere. Un fallito, secondo i moderni parametri di valutazione, ma già il suo desiderio di un evento decisivo, che dia senso all'esistenza, e la sua capacità di attenderlo, collocano il protagonista al di fuori della realtà contingente.
Del resto è frequente nei personaggi di Buzzati l'attesa di un episodio risolutivo che o non accade o comunque si presenta diversamente dal previsto; è così ad esempio anche in Barnabo delle montagne: quando il guardaboschi avrà sottotiro i briganti, comprenderà che ha già perso in passato la sua occasione e non ha più senso premere adesso il grilletto. Giovanni Drogo negli ultimi istanti della sua esistenza intuisce che il tempo è inesorabilmente trascorso portandolo al cospetto non dei Tartari, ma del nemico più temuto da ogni uomo: la morte. Questa la battaglia decisiva, da affrontare con dignità e con eroismo, e se nessuno coronerà di alloro il suo capo, né riferirà le sue gesta, poco importa, perché ormai il tenente sa che il vero riscatto è quello che ci nobilita ai nostri stessi occhi, che si compie nel silenzio del proprio cuore.
"Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla Fortezza come peso inopportuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l'intera vita. [...] Coraggio, Drogo, questa è l'ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena." (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori)
Anche quello di Santiago, l'anziano pescatore del Vecchio e il mare, è un eroismo del quotidiano e la sua impresa si realizza in solitudine, con l'estenuante cattura di un enorme pescespada dopo ottantaquattro giorni di pesca infruttuosa. Il breve romanzo è del 1952, precede dunque di due anni il conferimento del premio Nobel ad Ernest Hemingway (1899-1961) e ne sintetizza i miti ricorrenti: la ricerca del senso della propria esistenza, l'impegno nel realizzare la propria vocazione, il profondo rispetto per la natura. Santiago ama il mare, rivolgendosi a lui come a un'amante riottosa, e ne rispetta le creature, ma è anche consapevole della debolezza umana:
"Non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo, pensò. L'hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand'era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo. O lo è ancora di più?" (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, Mondadori)
Ma l'orgoglio del pescatore è quello di essere stato in grado di tener testa alla sua preda, di aver dimostrato a se stesso le proprie capacità, solo così dopo un'inutile e affannosa lotta può accettare con rassegnazione che gli squali divorino il suo trofeo sulla strada del ritorno; lui "ormai era al di là da tutto".
Da notare, infine, come sia Buzzati sia Hemingway, seppur stilisticamente molto diversi, prediligessero un'espressività piana, scarna, che cogliesse con precisione gli stati d'animo dei loro personaggi; una scrittura, la loro, che proprio nell'essenzialità rimarca quanto di epico vi sia in ogni vita (anche in questo dunque un ribaltamento dei valori moderni, per cui la letterarietà diventa ricercatezza ed effervescenza linguistica, commistione di generi e di stili, talvolta persino sproloquio...).