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Diritti umani: una universalità da costruire

Creato il 24 marzo 2014 da Sviluppofelice @sviluppofelice

Per un errore tecnico nel primo pomeriggio è stato pubblicato sotto il nome di Vanna Ianni l’articolo già pubblicato di Rosa Stella De Fazio. Ci scusiamo con le due autrici e con i lettori.

24 marzo 2014

di Vanna Ianni

unionedirittiumani.blogspot.com

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Negli ultimi decenni, in uno scenario di conflitti drammatici e di discussi interventi in aree di crisi (Bosnia, Afganistan, Iraq, Kosovo…), sotto l’egida delle Nazioni Unite e non, le critiche ai diritti umani si sono fatte più marcate. Viene denunciato il loro uso retorico e strumentale, volto a legittimare l’azione “imperiale” dell’Occidente. Al tempo stesso, tuttavia, la capacità di attrazione dei diritti umani si estende ad altre culture e continenti.

Zizek, che pure è un critico radicale della “falsa universalità ideologica dei diritti umani”, coglie bene l’origine di tale attrazione. Infatti non si può ignorare la potenzialità che hanno i diritti umani di essere ribaltati, come più volte è avvenuto, da strumento di dominazione a vessillo di libertà e di lotta alle diseguaglianze e all’oppressione1.
In questa sede ci concentreremo su di un punto che è cruciale, in un mondo sempre più globale: l’universalità rivendicata dai diritti umani e il tipo di obbligazioni che ne derivano. Lo faremo richiamandoci alle tesi esposte da Sen (v. testi in nota)2.
Va premesso che per Sen, come per molti sostenitori dei diritti umani, questi sono rivendicazioni etiche su ciò che andrebbe fatto, “mete” che non dipendono per il loro riconoscimento dalla legislazione vigente. Genitori quindi e non figli della legge; “diritti morali”, in cui è la morale ad orientare la legge3.
Ciò posto, c’è da chiedersi: quando una determinata libertà diviene un diritto umano? Cosa ne assicura l’universalità, visto che non si fa appello a un diritto naturale? I diritti umani sono forse da intendere come il “nocciolo” duro, comune alle molteplici concezioni morali? Sono il “cuore” di una morale universale “sottile” (thin), come pensa Walzer4? O sono, invece, riconducibili a quell’“overlapping consensus”, di cui parla Rawls (anche se non nel loro caso specifico)? Tale consenso legittimerebbe i diritti umani in quanto accettati da persone ragionevoli, quando non sono in conflitto con la concezione di giustizia presente nella loro visione morale5. Oppure universalismo e relativismo sono concetti da abbandonare, insieme alla ricerca di una loro fondazione ontologica6?
Intanto va detto che il riconoscimento della universalità non costituisce di per sé un punto da arrivo; al contrario, è l’avvio di una riflessione sulla natura e l’estensione del concetto.
Per Sen i diritti umani non sono nulla di quanto sopra detto. La loro universalità deriva dalla rilevanza ad essi attribuita da un dibattito pubblico aperto e informato. Questo dialogo porta a cambiare le posizioni iniziali e a costruire riferimenti e valori condivisi. L’universalità scaturisce quindi da un processo, non di “congiunzione” o “intersezione”, ma di “interazione”; da una visione delle culture come insiemi eterogenei e in movimento, diversi ma al tempo stesso attraversati da influenze che si sviluppano nel tempo. Si tratta quindi di processi ibridi, senza centro, come afferma Benhabib7, che sono agli antipodi di quella concezione delle culture come unicità senza porte e senza finestre, propria del relativismo assoluto.
Tale universalità conferisce ai diritti umani il carattere di “obblighi imperfetti”, di doveri il cui contenuto va definito caso per caso, tenendo presenti circostanze e variabilità sociali. In presenza di una violazione essi obbligano ad intervenire. Ma “il chi” è esteso fino a coinvolgere ogni uomo, e “il come” è condizionato dalla situazione di ognuno, dalle sue possibilità e capacità.
Questa prospettiva non toglie importanza all’azione di istituzioni nazionali, regionali e sovranazionali, ma la radica in una responsabilità più ampia. Tale responsabilità nasce dalla coscienza che ogni uomo è portatore di diritti e di doveri, non solo come membro di uno Stato, ma in virtù della sua umanità, della appartenenza a una comunità globale.
È questo l’aspetto di maggiore rottura rispetto al passato. Esso è inerente all’idea di diritti umani come una universalità non data ma costruita, e non una volta per tutte ma iterativamente, nel tempo.

1 Zizek Slavoj (2005), Contro i diritti umani, Milano, Il Saggiatore.
2 Sen Amartya (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori; (2004), “Elements of a Theory of Human Rights”,  Philosophy and Public Affairs, 32, 4; (2010), L’idea di giustizia, Milano, Mondadori.
3 Interessanti al riguardo, le opposte posizioni espresse da Bentham (Il libro dei sofismi, Roma, Editori Riuniti, 1981); e da Hart (“Are There Any Natural Rights?”, The Philosophical Review, vol. 64, n. 2, 1955).
4 Walzer Michael (1994), Thick and Thin: Moral Arguments at Home and Abroad, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press.
5 Donnelly Jack (2007), “The Relative Universality of Human Rights”, Human Rights Quarterly, vol. 29, n. 2.
6 Goodhart Michael (2008), “Neither Relative nor Universal. A Response to Donnelly”, Human Rights Quarterly, vol. 30, n. 1.
7 Benhabib Seyla (2008), “The Legitimacy of Human Rights”, Daedalus, vol. 137, n. 3.

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