La rubrica di questa settimana inizia con un "Forse non tutti sanno che…", espressione a cui ormai siamo parecchio affezionati.
Forse non tutti sanno che il 6 febbraio in Giamaica è un giorno di festa: si celebra infatti il compleanno di Bob Marley, e per quattro giorni – a Nine Mile, villaggio natale dell'artista – si tengono festival musicali e festeggiamenti.
A Nine Mile c'è anche il mausoleo dove fu sepolto Bob Marley, che è diventato meta di "pellegrinaggi" e una specie di tempio laico del reggae.
Marley oggi avrebbe compiuto 71 anni, ma – anche se sulla Terra ne ha trascorsi soltanto 36 – ha fatto in tempo a lasciare moltissima bellezza (e ben tredici figli). Il reggae non piace a tutti, è quel genere di musica legato anche a un'immagine che a qualcuno sta un po' antipatica perché figlia di cliché difficili da eliminare; ed è un peccato, perché quei cliché impediscono di apprezzare i momenti migliori della carriera di Bob Marley, che con la sua musica provò anche a costruire un po' di pace.
Fin da subito, infatti, tra i temi a lui più cari c'è stata la lotta all'oppressione politica e razziale, e l'invito a raggiungere l'uguaglianza tra i popoli. Uno dei dischi simbolo di questo messaggio è il disco che ho scelto di far parlare oggi, tra i miei preferiti di Marley, perché contiene un messaggio universale ma allo stesso tempo estremamente intimo. "Redemption song" parla di redenzione, parla di liberarsi dalla schiavitù mentale: e la schiavitù mentale coinvolge la visione del mondo ma anche la visione che si ha di sé. La si può leggere come un messaggio a intere comunità e come un "ehi tu, libera te stesso, nella tua vita di ogni giorno", è un messaggio sacro e profano.
È un invito ai popoli, ma anche a ogni singola testa. In fondo, non è forse vero che i grandi cambiamenti di massa sono fatti comunque dal movimento di decine, centinaia di singole teste?