Prosegue la riflessione poetico-sociale di Giorgio Galli sulla disillusione della generazione che è stata giovane negli anni Ottanta-Novanta.
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di Giorgio Galli
“Disillusione”
da blog.libero.it
La capacità di stupirsi, di custodire un sogno e un amore poterono essere il filo rosso di quegli anni, perché furono anni protetti: una parentesi felice tra la durezza di un’adolescenza passata da solo e l’ingresso traumatico nel mondo della disoccupazione e del precariato lavorativo. Se avessimo davanti un futuro, forse saremmo meno cinici; ma temo che sia tardi, ormai. Siamo stati cresciuti per essere cinici. Forse è per questo che abbiamo voluto bruciare tutta insieme la nostra riserva di gioia di vivere: sotto sotto, sapevamo che quella non era la vita, che la vita per noi non ci sarebbe proprio stata: e reagivamo come quello che teme di perdere da un momento all’altro i suoi beni, e allora s’ubriaca di essi, come preso da un’autentica bulimia. Per questo volevamo prolungare l’adolescenza – come in una primavera senza fine. Io sono arrivato alla conclusione che, tra me ed altri, davamo valore a beni diversi. Resta però il fatto che un percorso comune c’è stato. Ed è rimasto comune anche adesso, nelle sue linee di fondo. Perché siamo passati tutti da quel momento di vita comune a un tipo di solitudine che rifiuta il contatto umano disinteressato.
All’università, la vita era tutta davanti: dal giorno della laurea è alle spalle. Anche gli amici sono alle spalle: quando si entra nell’età della disoccupazione, nessun amico ti può aiutare. “Benvenuto nel mondo della disoccupazione”, ti dicono gli amici alla tua laurea: e vogliono dire: adesso ognuno è solo, si salvi chi può; adesso bisogna farla finita con aspirazioni, progetti, ambizioni: incomincia il percorso della sopravvivenza. È vero. Quando telefona un amico, rispondo malvolentieri: preferirei esser chiamato per un serio colloquio di lavoro.
Ma, durante la mia primavera senza fine, bastava poco per farmi felice. Se il poeta, come dice Calvino, è colui che scopre l’oceano in un bicchiere, io in quegli anni sono stato poeta:
Tu non lo sai che cosa trova un uomo
gonfio di malumori, che all’improvviso all’alba
della sua nuova vita si sporge da un balcone
(gli amici intanto preparano la cena)
e guarda un po’ il paesaggio e un po’ il suo lago.
Da quanto cerca gli indizi del destino,
in ogni caso un messaggio, che le cicogne
portano di lontano?
Il sole è già disceso. Le risate
di prima e dopo volano a frammenti
come parentesi impazzite nell’eco.
Ogni tanto dalla casa esce Sabrina:
anche lei guarda un po’ i colli e un po’ in se stessa,
poi ritorna ai fornelli insieme a Peppe.
Dovevi forse conoscere il dolore
per contemplare mentre ride questa valle?
Dovevi forse vivere impazzito
per rinsavirti guardando l’imbrunire?,
ti chiedi, e dai balconi di San Miniato a Siena
intravedi le macchine sfocate
che vanno dopo a perdersi nel Chianti,
e le colline che dietro gli Istituti
Biologici van via d’un verde bruno… La mensa
degli studenti è chiusa la domenica
ed un rossore sfoca anche i muri bianchi
del palazzo di fronte e gli alberi laggiù.
Poi d’improvviso il miracolo succede
e vedi un merlo che sopra al tetto
manda nell’aria un verso, cui rispondono
altri uccellini posati chi sa dove,
sull’orizzonte, dietro gli Istituti…
Dura il concerto un po’, e forse vorresti
che non finisse, ma devi andare a cena.
Ed anche poi che il buon merlo se n’è andato
tu dici ancora: mirerò per sempre
dell’universo l’immensa bellezza
che pur umile e nuova discende
col volo e il canto di un uccellino
per poi più buona d’allegria e tristezza
far la tua cena.
(Miracolo, di Giorgio Galli)
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