Volgendo lo sguardo al territorio, l’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle è stato caratterizzato da una serie drammatica (per danni sociali ed economici) di smottamenti, frane, crolli in roccia, ecc. Cerchiamo quindi di capire, con un breve excursus, perché il dissesto idrogeologico è legato a doppio filo con il consumo di suolo e quali politiche è più che mai doveroso attuare per contrastarlo. Cercherò di essere il più divulgativo possibile, ma, soprattutto, di trasmettervi qualcosa.
Da urbanista e architetto impegnato quotidianamente per il buon governo del territorio, vi assicuro che ci si potrebbe scrivere una tesi o un libro sul nesso tra consumo di suolo, dissesto idrogeologico, rendita di posizione e carenza legislativa (quest'ultima clamorosamente contrapposta al viluppo normativo figlio delle cosiddette leggi di settore). Magari ci organizzeremo un convegno, chissà.
Dunque da dove partiamo? Iniziamo con il provare a rispondere ad una domanda che mi ha posto un amico (ve la riporto tale e quale), tanto semplice quanto eloquente: tutto questo cemento quanto ha a che fare con i disastri a cui assistiamo ogni volta che piove troppo?
Primo punto: non so dire se “piove troppo”, effettivamente navigando in rete si trovano diverse pagine, anche qualificate, che mettono in risalto il costante aumento, sia nella frequenza che nella portata, dei grandi eventi temporaleschi (le c.d.“bombe d’acqua”). Una cosa, però, la so di certo ed eccoci al secondo punto: il consumo di suolo e, più precisamente, la “mala-pianificazione” urbanistica e di scala vasta hanno una notevole responsabilità riguardo ai disastri degli scorsi mesi.
Con il termine “consumo di suolo” si identifica comunemente l’impermeabilizzazione dello stesso (in vulgata “cementificazione”), che unita alle altre forme di “consumo” comporta la conversione in “territorio-antropizzato” di 8 metri quadrati al secondo[1].
La conversione in “territorio urbano” (per intenderci prima c'era un bel campo di frumentone, ora c'è una sfilata di capannoni prefabbricati con la scritta “vendesi” appesa fuori) è la forma più grave di consumo in quanto, oltre a rimuovere il primo “metro di terra” che contiene la parte più ricca a livello di biodiversità, causa l’impermeabilizzazione del suolo, comportando l’alterazione dello stato dei bacini di raccolta delle acque e modificando l’equilibrio ecosistemico, aumentando così il rischio di inondazioni.
Immaginate un’area definita: rendendone impermeabile almeno il 75% (situazione delle principali città mondiali), quintuplica il deflusso superficiale delle acque rispetto alla stessa area in condizioni di naturalità!
Esistono poi altre forme di consumo di suolo che influiscono direttamente sul dissesto idrogeologico. Troviamo, infatti, in tutta Italia migliaia di metri quadrati di spazi interstiziali, interclusi tra viadotti, svincoli autostradali, snodi ferroviari, ecc, di fatto inutilizzabili e lasciati in totale stato di abbandono. Allo stesso tempo, da circa un paio di decenni, assistiamo con forza all’abbandono dei territori agricoli, che si manifesta con maggior vigore in quelle regioni depresse economicamente, dove i piccoli e medi proprietari terrieri sono costretti a lasciare la lavorazione della terra in quanto poco remunerativa. Senza la manutenzione del suolo indotta dalle pratiche agricole, soprattutto in aree di versante, la natura si “riprende” i suoi spazi.
Non meno imponenti sono le conseguenze dell’abusivismo senza controllo (ne avevamo parlato qui), che ha caratterizzato e continua a caratterizzare il nostro Paese da mezzo secolo. Che si tratti di grandi speculazioni immobiliari, piuttosto che di iniziative frutto dei risparmi modesti di una famiglia media italiana, quello che appare più problematico in Italia non è “solo” l’abuso e il sistematico condono, ma l’effetto che esso esercita nel medio-lungo periodo, consolidando una cultura diffusa e pervasiva dell’esenzione da una pena e da una sanzione.
Dati gli svariati fenomeni che possono determinare consumo di suolo sottraendogli le proprie risorse naturali, sarebbe necessario incrementare le conoscenze riguardanti l’assetto geologico. L’Italia, sebbene sia uno dei paesi più industrializzati e, allo stesso tempo, un territorio geologicamente attivo, non si è ancora dotata di adeguati strumenti conoscitivi o, per meglio dire, sconta un ritardo dovuto alla frammentazione conoscitiva, alla moltitudine di piani settoriali e ad una pianificazione di scala vasta che, salvo rare eccezioni, è stata assente o fallimentare.
Ora affrontiamo il lato normativo.
L'urbanistica o, come giustamente definito dalla Costituzione, il Governo del territorio é materia concorrente tra Stato e Regioni dal 2001. Da allora tutte le Regioni hanno prodotto (chi più, chi meno) leggi urbanistiche regionali basate sul principio di sviluppo sostenibile e di valorizzazione del territorio. Una cosa manca, la più importante, ovvero il recinto entro il quale le leggi regionali avrebbero dovuto svilupparsi e che avrebbero dovuto riempire di contenuti: la Legge quadro di principi fondamentali di governo del territorio.
Quella attualmente in vigore é figlia della calda estate del '42 ed è stata, a fasi alterne, integrata e rimaneggiata, ma l'impianto fondamentale rimane quello, con lo storico (e stoico) Piano Regolatore Generale Comunale tutto conformativo della proprietà, in scala 1:2000, da redigere su base catastale. In soldoni: una cassetta degli attrezzi non più adatta per il buon governo del territorio che ci prodighiamo a perseguire.
Chi con questo mestiere ci mangia tutti i giorni conosce bene il dedalo di leggi, direttive, circolari ed enti diversi con i quali bisogna confrontarsi per il intervenire sul territorio. La soluzione é semplificare per rendere più efficace ciò che già c'è. Semplificare non vuol dire banalizzare (vedi Sblocca-Italia, almeno per quanto riguarda l'edilizia). Senza una legge quadro, credere che una “leggina” che indichi un tot di metri quadri che "per legge" possiamo convertire da ambiente naturale a costruito ogni giorno basti a difendere il nostro territorio é semplice connivenza. Facciamo una legge di principi, é ora.
Tuttavia, quanto avviene in Parlamento sembrerebbe andare nella direzione opposta. Per quanto riguarda la riforma del Titolo V, il ddl "Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione", approvato in prima deliberazione dal Senato e ora in discussione alla Camera, prevede la soppressione delle materie concorrenti, collocando quindi le “competenze” in soli due gruppi: il primo di esclusiva competenza statale, il secondo di competenza regionale, nel quale però lo Stato può intervenire quando lo richiedano l’unità del Paese o l’interesse nazionale. Se pensiamo proprio al “governo del territorio” vi è il rischio che, diventando materia di competenza regionale (stando a quanto previsto dal ddl), lo Stato non produca più la legge quadro di principi della quale c’è estremo bisogno, così da raccordare secondo una ratio comune, seppur ognuna con le sue peculiarità, le legge regionali prodotte in questi anni (se non lo ha fatto quand’era materia concorrente perché farlo ora?). C’è di più, così facendo il rischio è quello che il legislatore intervenga solamente con politiche emergenziali e settoriali (dissesto idrogeologico, consumo si suolo, messa in sicurezza delle scuole, ecc), in contrasto con la necessità di promuovere una pianificazione del territorio che adotti un approccio transcalare.
Dal 1985 al 2011, come scritto poco più di un mese fa da Settis, ci sono state, dalla Valle d’Aosta alla Calabria, oltre 15 mila frane. I costi stimati per risanare i danni apportati dai dissesti idrogeologici ammontano a 3,5 miliardi/anno. La stima fatta del costo per le opere necessarie a mettere in sicurezza il territorio in modo tale da prevenire le situazioni di potenziale dissesto idrogeologico ammontano a 1,5 miliardi/anno: dunque non si tratta solo di prevenzione, è un risparmio[2]. Consideriamo poi i 4 miliardi per nuove opere infrastrutturali da confrontare ai 110 milioni di fondo straordinario stanziati sull’onda emotiva dei recentissimi disastri di Genova: è evidente che ad essere sbagliato è l’approccio. Certo, a volte c’è poco da fare contro la forza della natura, ma ci troviamo paradossalmente, da un lato, ad essere dotati di migliaia di giovani urbanisti e architetti, ingegneri e geologi, che detengono l’insieme delle conoscenze atte a concretizzare politiche di buon governo del territorio e, dall’altro, ad avere estremo bisogno di mettere in campo investimenti pubblici che producano il cosiddetto “effetto moltiplicatore”. Servono risorse per una vera e propria opera di rammendo del territorio.
Dunque, cosa manca? Qualcuno, in modo alquanto superficiale, risponderebbe che “mancano i soldi”. In realtà ciò che manca è la volontà politica di intraprendere questa direzione con netta convinzione, escludendo dai vincoli del patto di stabilità dei Comuni gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che gli enti locali svolgono, o dovrebbero svolgere, per mantenere in condizioni di sicurezza il territorio.
Certo, è necessario agire finanziando in modo prioritario là dove lo stato di dissesto è più grave. Ma è quanto mai doveroso abbandonare la logica dell’emergenza, perché la messa in sicurezza del territorio italiano è un lavoro che deve essere fatto giorno dopo giorno, con piccoli ma essenziali interventi di manutenzione ordinaria e ingegneria naturalistica.
Ultima considerazione. E’ pur vero che nelle costituende Città metropolitane si registra la maggiore concentrazione di abitanti e il maggior consumo del suolo e, quindi, sono queste le aree più soggette alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Ma come predetto, al Nord come al Sud, il progressivo abbandono delle campagne e delle aree collinari rischia di provocare fenomeni di dissesto altrettanto inaccettabili.
Quindi, tornando, alla domanda iniziale: quanto ha a che fare la cementificazione con i fenomeni di dissesto idrogeologico degli ultimi mesi? La risposta, abbastanza scontata, è: tanto!
A non essere scontato è il dedalo normativo, storico, sociale, economico e ambientale che ha provocato l’alterazione, spesso incontrollata, di ampie zone del nostro Paese, impermeabilizzando il suolo e antropizzando, quasi irrimediabilmente, l’ambiente naturale, un processo che è costato una quantità enorme di risorse economiche e ha comportato un prezzo in termini di vite umane insostenibile per qualsiasi nazione civile.
Davide Giancola
@twitTagli
[1] In termini assoluti, si stima che il consumo di suolo abbia intaccato ormai quasi 22.000 chilometri quadrati del nostro territorio nazionale: una superficie pari a quasi tutta la Regione Piemonte. Per approfondire si consiglia Il consumo di suolo in Italia, Edizione 2014, a cura dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA).
[2] Dati Ance-Cresme.