L’avrete sentito un po’ tutti.
Per la prima volta il tour di Bob Dylan ha toccato la Cina.
L’anno scorso non l’hanno voluto. Quest’anno, invece, hanno deciso di farlo suonare nella capitale, ma senza tutte quelle canzoni scomode che potrebbero risvegliare gli animi assopiti di giovani e vecchi cinesi.
I quadri del Partito non hanno voluto rischiare.
Ok il consumismo, il lusso e i palazzi costruiti alla velocità della luce. Ok la proprietà privata, le fabbriche e la legge del profitto. Ok un po’ tutto nella Cina del 2011.
Molte cose ormai sono ammesse.
Molte, sì, ma non le canzoni di protesta.
Il ministero della Cultura ha posto il veto su queste.
Nessun uragano o vento di rinnovamento ha soffiato per accelerare un tempo che non vuole cambiare totalmente.
In compenso i Signori del ministero hanno riempito la location di polizia, in divisa e in borghese e sono andati in massa ad ascoltarlo, Bob.
Pare siano stati distribuiti fino a 2000 biglietti ai dipendenti dello stesso ministero.
Ma lui, insomma, non si è proprio scomposto.
Non ha fatto come Bjork a Shangai.
Non ha urlato nessuna frase proibita.
Non ha suonato nessuna canzone che potesse mettere a rischio l’abnegazione cinese.
Niente di niente.
E questo non è passato inosservato.
In molti se la sono presa con Bob.
E anche noi ce la prendiamo con lui.
Che cazzo.
Solo perché uno invecchia, mica deve diventare un rammollito.
Il nostro Monicelli avrebbe avuto molto da insegnare anche ad uno come lui. Eh si.
Perché Bob Dylan era un mito.
E i miti devono stare ben attenti a non tradire la loro integrità di mito.
Al massimo possono sconvolgerla in modo rivoluzionario come solo loro sanno fare.
E come già fece nei Sessanta il caro Bob Dylan.
Mica può arrivare alla sua età e mandare a puttane l’immagine di figo che si era costruita negli anni.
E vabbè. Noi preferiamo cancellare questa brutta immagine per ricordarlo come era un tempo: al lato di una strada in bianco e nero a buttare cartelli a terra.
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