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“Divine Parole” al Piccolo Teatro di Milano

Creato il 01 maggio 2015 da Valeria Vite @Valivi92

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Lunedì 27 aprile ho assistito al Teatro Studio Melato di Milano a Divine parole, un’opera dell’autore spagnolo Ramòn Maria del Valle-Inclàn e portata in scena al Piccolo Teatro di Milano dal regista Damiano Michieletto.

Valle-Inclàn è un autore cardine del teatro spagnolo ma è ignorato in Italia, così Michieletto, che lo ha conosciuto attraverso alcuni amici spagnoli, ha deciso di portarlo in scena a Milano per la prima volta nella storia del Piccolo Teatro.

Divine parole racconta le liti di due famiglie che si contendono per motivi economici un carrozzino contenente un bambino deforme: il piccolo infatti consentirebbe di commuovere i passanti, permettendo di ottenere cospicui guadagni in elemosina. Vegliato dallo spirito della madre morta in un universo di ubriaconi e prostitute, il bambino viene infine sfruttato dalla zia Mari Gaila (Federica Di Martino), che tradisce il marito sacrestano Pedro Gailo (Fausto Russo Alesi) con Séptimo Miau (Marco Foschi), un fuorilegge fuggito di prigione che può essere considerato l’incarnazione del male. Nel corso dello spettacolo i personaggi sprofondano gradualmente nel peccato sino a toccare la depravazione più nera nel finale. La storia racconta un mondo senza Dio in cui la crudeltà e l’orrore sono ovunque ma proprio per questo viene rappresentato un forte bisogno di spiritualità e redenzione, in una perfetta dicotomia tra bene e male.

Il Teatro Studio Melato è privo di palcoscenico e la scena è interamente cosparsa di fango, una melma marrone che imbratta la pelle e i vestiti dei personaggi nel corso della recitazione. Michieletto racconta: “Il fango come l’immondo, l’oscuro, l’osceno, incarnato poi dal personaggio di Séptimo Miau. E ancora come la terra, la tomba, la madre, la sessualità”. Pedro Gailo inizialmente cerca di non venire a contatto col fango camminando su assi e mattoni e pulendosi con un fazzoletto ma, quando il suo personaggio inizierà a corrompersi, smetterà di preoccuparsi dello sporco. Contrapposto al fango della pavimentazione, troviamo un palchetto bianco su cui è affisso un santino di Cristo, che rappresenterebbe l’altare di Pedro Gailo. In alto a sinistra è appesa un’imponente campana di ferro e il sipario è una grossa lamiera di ferro.

Lo  spettacolo è sconsigliato ai minori perché sono rappresentate scene molto crude: sesso, violenze sessuali, molestie, torture, incesti e lapidazioni. Nei film la violenza è spaventosa perché ciò che viene rappresentato oltre lo schermo sembra reale, in teatro invece la finzione è evidente perché attori e spettatori si trovano nello stesso spazio; ne consegue che le raccapriccianti scene di crudeltà di Divine Parole non provocano paura, ma inducono un senso di angoscia e squallore che hanno talvolta reso poco piacevole lo spettacolo. Gli attori meritano i più sentiti complimenti per aver interpretato tali scene in modo realistico e con professionalità, inoltre sarebbe interessante sapere quali sensazioni hanno provato in quei momenti e come hanno fatto a interpretare situazioni così delicate.
Si potrebbe aprire un dibattito su quanto sia giusto rappresentare scene di raccapricciante violenza a teatro, anche se in questo caso erano funzionali alla vicenda narrata e al messaggio che il regista voleva trasmettere. Acqua e limone è favorevole al teatro d’avanguardia e allo sperimentalismo, ma molti potrebbero non apprezzare tali scelte e preferire un teatro più tradizionale.

Uno dei temi cardini dello spettacolo è la religione, infatti la rivista Famiglia Cristiana ha dedicato un articolo a Divine Parole. L’azione si svolge in una società degradata in cui l’uomo ha perso ogni morale e “la religione è vista in maniera misteriosa, folcloristica, pagana e sempre in dialogo continuo con la morte”, infatti l’opera “racconta l’assenza di Dio ma al tempo stesso la necessità di recuperare una tensione spirituale e di dare voce a qualcosa che vada oltre la miseria della propria condizione umana.“ 
Per creare un’atmosfera spirituale in contrasto con lo squallore dei fatti narrati, il regista ha scelto per l’opera delle colonne sonore religiose cantate in latino: la Missa Syllabica di Arvo Part, il Miserere di Allegri e quello di Gòrecki, Agnus Dei di Samuel Barber, In Paradisum dal Requiem di Fauré. Tali opere hanno lo scopo di precedere la sentenza latina finale: “qui sine peccatus est vestrum, primus in illam lapidem mittat” (chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei), la frase biblica cui si riferiscono le “divine parole” del titolo. A questo proposito il regista ci rivela: “Per me divine parole sono tutte le esperienze della vita (quindi anche l’arte) nelle quali esista la percezione di qualcosa che aiuti ad elevarsi, non secondo un misticismo fine a se stesso, ma per restituire valore alle cose, per interrogare la propria coscienza.”

I costumi di Carla Teti sono semplici e funzionali alle personalità dei personaggi: pantaloni e gilet grig per Pedro Gailo, un semplice vestito rosso per la bella e passionale Mari Gaila, un candido vestitino per l’innocente figlia della coppia Simonina (Petra Valentini), un giubbotto di pelle marrone per il crudele Séptimo Miau, stracci per Juana la Reina (Sara Zoia), la madre del bambino deforme. Sono abiti poveri e semplici come i personaggi che gli indossano, e nel corso della manifestazione diventano ancora più miseri per il fango che li imbratta. Durante alcune scene di nudo, gli indumenti vengono gettati a terra e sporcati come se fossero stracci.


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