Quando l’amore finisce, quando due persone decidono di intraprendere due percorsi di vita differenti cosa succede? Se succede ad una coppia senza figli, pazienza. Ma se ci sono? Leggete questa storia, vi toglierà il fiato: buona lettura!
La storia che andrete a leggere e i suoi protagonisti sono inventati. Le fonti su cui mi sono basato per scriverla sono vere.
Mi chiamo Sara e ho 15 anni. Da bambina giocavo a lungo nel giardino con le mie amiche del cuore, pettinavo e curavo le mie bambole, facevo lunghe escursioni con la mia famiglia. Mare, montagna, laghi, pattinaggio, tante fotografie che riempivano album in pelle scura tutti raccolti nella libreria in legno massello della sala per gli ospiti. I miei genitori si amavano molto, si baciavano di continuo e a me davano un po’ fastidio, non capivo ancora la bellezza del loro amore nei miei occhi di bambina.
Poi il mio corpo ha iniziato a cambiare, le bambole le ho riposte nell’armadio e ho iniziato a truccarmi e a passare ore al telefono con le amiche, smaniando nell’attesa di dimenarmi in discoteca e di incontrare ragazzi nuovi. E’ stato un periodo intenso per me, era il passaggio tra l’età della fanciullezza e quella adulta (anche se molti miei coetanei dimostravano ancora evidenti segni di immaturità, ma credo sia nella natura maschile), ho avuto i miei primi turbamenti e alcuni “segni” evidenti che mi hanno portato a parlare con le mie amiche e a confidarmi.
Nel frattempo le gite si erano ridotte, i baci tra i miei genitori quand’ero presente erano spariti e litigavamo furiosamente per cose futili (il che mi sembrava molto strano). Lei gli gridava di uscire sempre più spesso la sera e di non esserci per sua figlia e sua moglie, di non avere idea di cosa fosse una famiglia e una figlia adolescente; lui le rispondeva che gli amici lo trattenevano al bar a giocare a biliardo, lei rimarcava il fatto che lui profumasse di fragranze femminili (che sicuramente i suoi amici nerboruti non avevano). Nell’arco di pochi mesi dalle parole si è passati ai piatti, dalle stoviglie ai fatti. I miei genitori quando parlavano tra di loro urlavano e comunicavano attraverso post-it sul vetro dell’ingresso.
A breve è arrivata la separazione, fisica e psicologica (oltre a dividere le camere avevano anche diviso il mio cuore). Le mie amiche continuavano a preoccuparsi di ragazzi, lettori mp3 e telefonini e io dovevo affrontare una doppia vita di cui non avevo ricevuto le chiavi d’accesso. Mi ritrovavo sola nella mia camera a versare calde lacrime sulle foto di famiglia mentre ascoltavo Vasco, mi si è chiuso lo stomaco e avevo frequenti mal di testa (e, ovviamente, per il dottore era solo questione di stress).
Nel momento in cui i miei cambiamenti mi assalivano ho dovuto cambiare il mio modo di vivere, le mie certezze, le mie colonne portanti che con il loro modello mi avrebbero dovuto traghettare verso l’età matura rendendomi una donna migliore.
La mia mente non riusciva a razionalizzare il distacco, i miei occhi non riuscivano a rendersi conto di ciò che vedevano: letti divisi agli inizi, avvocati divorzisti nei biglietti da visita che vedevo in giro per casa, case separate in cui mettere le mie cose e le mie fotografie, in modo che ognuno dei due potesse vedermi almeno in cornice, parole d’astio ogni volta che si sentivano al cellulare per le comunicazioni di servizio (la prendo io, la prendi tu, come se fossi un pacchetto postale).
Ero diventata un ulteriore motivo di contesa, una specie di trofeo che qualcuno doveva ospitare fino alla maggiore età.
Il mio migliore amico Paolo mi è stato molto vicino, mi ha sempre teso una mano a cui aggrapparmi senza chiedermi nulla in cambio e senza fare domande: gli bastava guardare nei miei occhi spaventati e luccicanti per intuire la desolazione della mia anima, dispersa e confusa dopo aver perso quello che ritenevo di più caro per me.
Quando giro per strada molti mi guardano dicendo Povera cocca, vedrai che passerà, non è colpa tua. A forza di sentirmelo dire mi sto veramente domandando di chi sia, questa colpa: un matrimonio avventato con due innamorati troppo giovani, nozze riparatrici o l’incoscienza di due sconosciuti che, credendo nell’amore mellifluo, non hanno pensato a tenere aperto un canale di comunicazione tra loro?
Gli anni sono passati e ora sono una bella ragazza maggiorenne. I corteggiatori non mi mancano ma la mia anima continua a rimanere lacerata, in tv le famiglie contente e sorridenti mi mostrano quello che non potrò avere mai più, una felicità forse fittizia ma simbolo di quella che dovrebbe essere una famiglia. Ho perso l’unione, ho perso il senso del “comune”, ora è tutto diviso; vacanze, cene, pranzi, festività, parenti (quelli di lui e quelli di lei), regali (che dovrebbero comprare una felicità che non potrò mai più recuperare). Come posso dare amore ad un’altra persona se io sono la prima ad essere confusa su cosa questo significhi? Come posso guardarlo negli occhi e dirgli che sarà per sempre quando non so nemmeno quanto lui sia disposto veramente a crederci in questa storia?
Ora sono come una tela squarciata da Fontana, con la differenza che io cerco di nascondere questo mio dolore e non posso esibirmi al MoMa di New York. Paolo mi è sempre rimasto vicino, parlandomi sotto voce, abbracciandomi quando sapeva che era il momento giusto, asciugando delicatamente con la mano le lacrime che rigavano il candore del mio viso.
Il buio dentro si sta lentamente riaprendo, ho capito che la famiglia spesso non è quella che ti capita ma quella che scegli: e io ho tante famiglie, anche se fittizie. Amici e amiche, università, il gruppo di ballo (frequento hip hop)… Non mi sono ancora iscritta su Facebook e credo che continuerò a non farlo.
Io sono un libro chiuso con un lucchetto, non posso permettere che le mie pagine si rovinino ancora di più: ai fortunati la chiave per vedere il mio abisso e la mia fragilità, agli altri l’immagine di una ragazza serena e spensierata.
Dopotutto io sono colei che mi si crede.
Marco