Sorpresa: il problema non è più il divorzio, ma i suoi tempi. Non l’agonia di un matrimonio, ma la rapidità delle procedure di sepoltura. Non il fatto che ci si lasci, ma che si perda troppe energie nel farlo. Questo, almeno, il significato che emerge dal testo bipartisan depositato alla Camera dalla democratica Moretti e dal forzista D’Alessandro, che prevede la riduzione ad un anno del periodo di separazione per ottenere il divorzio, ridotto ulteriormente a nove mesi in caso di coppia senza figli minori, e lo scioglimento della comunione dei beni nel momento in cui il giudice autorizza moglie e marito a separarsi.
Al di là del profilo strettamente tecnico-giuridico della proposta, non possiamo sottrarci ad alcune considerazioni di carattere morale – ma non per questo astratte, anzi – che questa iniziativa inevitabilmente stimola. La prima, breve ma emblematica, concerne il fatto che una politica divisa su tutto riesce ad unirsi solo su ciò che divide, vale a dire la rottura coniugale e la necessità di agevolarla: si fa un gran parlare di solidarietà e condivisione e della necessità di contrastare le divisioni, ma quando poi si tratta di concorrere alla frammentazione della famiglia, che della solidarietà e della condivisione è fonte originale, l’unanimità di vedute è straordinaria. Il che rappresenta, si converrà, un amaro paradosso.
Una seconda considerazione riguarda il messaggio distruttivo insito nel cosiddetto “divorzio breve”. Si dirà che se un matrimonio è finito, e marito e moglie non trovano più la forza per andare avanti assieme, tanto vale che possano lasciarsi il più in fretta possibile evitando lungaggini dolorose per entrambi. Ora, a parte che se il Legislatore non ha previsto lo scioglimento coniugale istantaneo, non è certo per inumana crudeltà o per il gusto di infliggere sofferenza bensì come estremo tentativo – sulla cui efficacia è lecito discutere, ma pur sempre tentativo è – di sottolineare con forza la gravità del divorzio e di conseguenza l’importanza del matrimonio, c’è una domanda che pesa.
La domanda è la seguente: quale messaggio lancia ai propri cittadini, ed in particolare alle coppie sposate, un Parlamento che, anziché interrogarsi cercando di trovare il modo per arginare il disastroso fenomeno del divorzio, sceglie di renderlo più celere? E’ un Parlamento che, per quanto possibile, sostiene l’unità della famiglia oppure è un Parlamento che, di fronte alla crisi di coppia, suggerisce a tutti la scorciatoia più facile? E ancora: è realmente neutrale, come si sente spesso dire, uno Stato che dinnanzi all’instabilità coniugale, fra la solidità matrimoniale ed il divorzio scegliere di promuovere, offrendolo in formato light, quest’ultimo?
Se si riflettesse con attenzione su questi interrogativi, si capirebbe quanto la proposta di Moretti e D’Alessandro non stia dalla parte dei cittadini bensì contro il loro bene. Per quanto si possa infatti dire e raccontare al riguardo – e per quanto si stia tentando di indorare la pillola arrivando al punto di proporre ed organizzare grottesche “feste di divorzio” -, in cuor suo non c’è chi gioisca all’idea di un addio, all’idea di dover azzerare la propria vita calpestando una promessa risalente magari solo qualche anno prima, rendendo, se c’è, il proprio figlio o i propri figli testimoni di un fallimento che anche se fosse reso immediato dalla legge, sempre fallimento rimarrebbe.
Non servono dunque menti elevate per comprendere come uno Stato che, evitando di cercare di promuoverne la solidità, decidesse di mettere più dinamite dentro la famiglia per farla saltare prima, giocherebbe un ruolo ancora più distruttivo di quello attuale, scegliendo chiaramente da che parte stare ed assumendosi responsabilità gravissime, soprattutto nei confronti dei giovani e delle future generazioni. Non è difficile, a questo punto, immaginare diverse obiezioni che, in fondo, si possono riassumere in un unico interrogativo: che senso ha chiedere a due persone che hanno smesso di amarsi di protrarre il loro rapporto? Perché aggiungere burocrazia alla sofferenza? Per quale ragione nascondere con l’ipocrisia della legge una verità drammatica e già evidente?
Il nocciolo della questione – venendo alla terza ed ultima considerazione - in effetti è proprio questo: la verità di Amore dichiarato finito. Si è volutamente ricorrere a detta espressione – dichiarato finito -, perché c’è un ultimo interrogativo col quale è opportuno fare i conti: un Amore può davvero finire? La domanda, benché possa apparire provocatoria e a qualcuno persino ridicola, è invece assolutamente centrale. Perché se l’Amore è solamente un intreccio di passioni non solo non c’è da meravigliarsi che finisca, c’è perfino da stupirsi che duri così a lungo da condurre due persone da un fidanzamento, magari di diversi anni, fino al matrimonio. Se però l’Amore è anche (e in alcuni passaggi soprattutto) e volontà e sacrificio, determinazione e sudore, difficilmente può – un po’ come il petrolio di un pozzo qualsiasi – esaurirsi. Né potrà prosciugarsi per una crisi.
Sarà anzi proprio la crisi o le crisi – che è del tutto fisiologico che, negli anni, ciclicamente si verifichino – a rafforzarlo, a cementarlo rendendolo equilibrato e maturo. L’idea che se un giorno volessimo mandare tutto al diavolo – per quanto i problemi di coppia non siano e non debbano diventare affari altrui – la comunità, anziché spianare la strada a propositi disfattisti, possa mettere a nostra disposizione non solo supporti psicologici, materiali o di altro genere (cosa che oggi non avviene) ma soprattutto, attraverso quei supporti, un chiaro messaggio a favore del mantenimento della promessa da noi liberamente fatta ad una persona da noi liberamente scelta, di certo non risolverebbe i problemi. Però ci farebbe sentire meno soli. E ci farebbe capire che la scelta più difficile, quella di ripartire quando ormai sembra tutto finito, rimane la scelta giusta. Altro che “divorzio breve”.