Magazine Cultura
di Quentin Tarantino (USA, 2012)
con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington, Samuel L. Jackson
VOTO: *****/5
Diavolo di Quentin, questa volta ci hai davvero fregati tutti... abbiamo fatto appena in tempo a vedere i titoli di testa del tuo Django, con quelle scritte rosso fuoco e la musica di Luis Bacalov intonata da Rocky Roberts, che già eravamo rassegnati a commentare il tuo 'solito' sgangherato omaggio alle antiche passioni trash italiche, con l'altrettanto consueto campionario di dialoghi verbosissimi, citazioni fino allo sfinimento, personaggi strampalati e, ovviamente, violenza a fiumi.
E invece... beh, i dialoghi verbosissimi ci sono ancora, così come le innumerevoli citazioni e i personaggi assurdi. Per non parlare della violenza in quantità industriale. Ma ecco prima la sorpresa: questa volta con le pallottole ci si fa male davvero: ognuna di esse va a segno e, soprattutto, lascia il segno. Uccide. E a ogni morto ammazzato fanno da contraltare il dolore, la rabbia, la sete di vendetta. Per la prima volta la decantata violenza tarantiniana non è nè innocua, nè volutamente grottesca e sopra le righe come eravamo abituati: è violenza vera, dolorosa, necessaria, e non ci vengono affatto risparmiate le conseguenze e le lacrime che essa genera.
La seconda grande sorpresa è che Django Unchained è un film innegabilmente politico: l'omaggio a Sergio Corbucci e allo spaghetti-western dura una manciata di minuti, giusto il tempo dei panorami iniziali, poi sullo schermo si vedono schiavi ne(g)ri incatenati e malnutriti, alla mercè dei latifondisti bianchi. Poi arriva un cacciatore di taglie tedesco che si finge odontoiatra (Christoph Waltz, che replica il ruolo di Bastardi senza gloria, seppure dalla parte dei 'buoni') , capitato chissà come lì, da qualche parte nel Texas, e decide che è il momento di imbarcarsi in un'avventura folle per i tempi che corrono: aiutare lo schiavo ne(g)ro che ha appena liberato (Jamie Foxx) a ritrovare sua moglie, anch'essa di colore, che di nome fa Brunilda (come nella canzone dei Nibelunghi), parla anche lei il tedesco ed è dispersa in qualche piantagione di cotone dell'immenso Sud...
Questa è la durissima e geniale provocazione che Tarantino rivolge al proprio paese: usare il western, vale a dire il genere cinematografico che più di ogni altro incarna l'essenza e i valori dell'America, come un grimaldello per scardinare il falso mito del Sogno Americano e di un'epopea che chi scrive la Storia, ovvero i vincitori, ci hanno sempre descritto come eroica e ammantata dal Mito, ma che invece si rivela lugubre e macchiata dal sangue di tante vittime innocenti. Un Paese che è nato e cresciuto nel segno della violenza e del razzismo, e che ha sacrificato i più deboli sull'altare della Ragion di Stato. Siamo dalle parti di Gangs of New York e, volendo, di Nascita di una nazione, anche se la memoria corre soprattutto a Gli Spietati di Eastwood, altro grande western demistificatorio e coraggioso, pietra miliare del filone 'revisionista'.
Come nel precedente Bastardi senza gloria, anche in Django Unchained Tarantino vuole riscrivere la Storia a modo suo, ribaltando tutto quello che finora avevamo immaginato sul Mito della Frontiera: qui gli schiavi sono colti, intelligenti e fieri, mentre gli stranieri (nel nostro caso il dentista tedesco Schultz) sono quelli che portano in giro per il mondo gli ideali di giustizia e libertà. Gli americani invece vengono descritti come un popolo razzista, gretto, ignorante, violento, dedito esclusivamente all'accumulo di enormi ricchezze costruite sulle spalle della povera gente. Non c'è infatti nel film un solo personaggio bianco che si salva (in tutti i sensi, sia moralmente che fisicamente), perfino l'anziano maggiordomo di colore dell'aguzzino schiavista, ormai totalmente asservito al padrone, non verrà risparmiato dalla sete di vendetta di Django, esattamente come Hitler, nel film precedente, finiva bruciato vivo dietro le quinte di un cinema.
Django Unchained è il film più bello, importante e riuscito di Quentin Tarantino. Non solo, ci vogliamo sbilanciare: è uno dei più grandi western di sempre, per il messaggio che restituisce e per l'enorme lezione di cinema e di civiltà che trasmette allo spettatore, oltre che uno dei più accorati appelli contro il razzismo e la stupidità umana: e se la scena in cui viene ridicolizzato il Ku-Klux-Klan ci fa sorridere e allentare la tensione, non possiamo invece negare la sinistra inquietudine che ci pervade quando assistiamo alla raccapricciante sequenza del teschio, in cui il ricco e spietato proprietario terriero (Leo Di Caprio, come al solito bravissimo) teorizza la sua delirante giustificazione 'scientifica' della schiavitù, esattamente come il nazismo faceva con gli ebrei. La storia si ripete sempre, ci dice il regista, e pazienza se la ricostruzione non è accurata e filologica come 'si dovrebbe fare': mai come in questo caso il risultato finale è infatti più importante della confezione. Con buona pace di Spike Lee e degli anti-tarantiniani duri e puri, che (stupidamente) non cambiano mai idea.
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