Il made in Italy della moda affronta la concorrenza del modello francese dei grandi gruppi industriali - che l' anno scorso si sono aggiudicati Bulgari (LVMH) e Brioni (Ppr) - ma il futuro, secondo due degli stilisti che rappresentano l' alternativa italiana a quel modello, è al sicuro. Dicono Domenico Dolce e Stefano Gabbana: «La nostra è un' azienda di famiglia che negli anni è diventata un' industria. Nel 2000, quando ci venne fatta la proposta di vendere, rispondemmo no per gli stessi motivi per i quali lo faremmo oggi. Da Ferrari a Barilla sono tantissime le aziende di successo mondiale a tutti i livelli, pensiamo anche a un Giovanni Rana: nel nostro Paese la tradizione è quella. Le famiglie. Chiedete oggi a chi ha venduto qualche anno fa... c' è chi si sta mangiando i gomiti». Il valore del made in Italy come marchio, al di là delle singole realtà, è immune dalla crisi? «Tutto quello che è pensato in Italia con gusto italiano ha valore mondiale. E quando all' estero dicono pizza e mandolino credendo di insultarci? Noi siamo orgogliosi di pizza e mandolino! Il cibo italiano e la musica italiana sono ovunque, come l' arte. Non è elegante avere complessi di superiorità: ma che i figli di Michelangelo e Leonardo che vivono in città che sono musei a cielo aperto soffrano di complessi di inferiorità è assurdo. E verso chi poi?». Però non si può dire che l' economia italiana sia in crescita... «Perché purtroppo tutto si quantifica col soldo, e certamente ci sono aziende in difficoltà. Ma non c' è niente da invidiare agli altri». I grandi gruppi francesi garantiscono espansione e sinergie: un' azienda come la vostra quale modello contrappone? «Quelli che hanno 18 marchi e magari soltanto due vanno veramente bene? E magari sono i due che producono in Italia?... Bisogna sfatare il mito del grande gruppo come unica via. Noi due decidiamo senza sottoporre nulla a un comitato di manager. La libertà non ha prezzo. Come dire: più belle le donne italiane o le francesi? Sono belle in modo diverso». E i rischi del sistema «all' italiana» quali sono? «Siamo i primi ad arrivare e gli ultimi a uscire ma lunedì scorso mi sono preso un giorno libero e quasi mi vergognavo... - sorride Dolce - Non bisogna dimenticare mai che l' azienda deve poter andare avanti da sola. Se c' è un rischio nel modello familiare italiano è che l' azienda segua l' umore del titolare. Le aziende, come i figli, quando sono grandi devono sapersela cavare senza i genitori». In un periodo di crisi non è più semplice avere alle spalle una realtà industriale più variegata? «Quando c' è crisi un grande gruppo ti aiuta, ma è un problema di obbiettivi. I soldi a noi servono per reinvestirli nell' azienda, ci piace vedere sempre più persone che si vestono Dolce & Gabbana. Non abbiamo l' ossessione della Borsa». A che punto è la vostra questione con il Fisco? «La stanno gestendo i nostri consulenti. Personalmente siamo molto amareggiati della vicenda ma, siccome siamo assolutamente sicuri di aver sempre operato nel pieno rispetto delle regole, siamo anche sereni. Ci chiediamo: ma come è possibile che pretendano di farci pagare delle tasse su soldi che non abbiamo mai incassato? Vogliamo essere fiduciosi che, come è già successo, verrà alla fine riconosciuta la nostra innocenza. Deve finire per forza bene». L' Italia è un Paese dove si può ancora fare impresa in modo indipendente? «Noi abbiamo cominciato nel 1985 e abbiamo fatto fatica anche allora. Ma chi ha qualcosa da dire riesce ancora a farlo come dimostrano tantissime aziende, anche piccole. E le tante start-up create dai giovani, al nord come al sud». Uno dei «mantra» manageriali degli ultimi anni è: tagliare. «Attenzione: una cosa è tagliare il superfluo, un' altra è tagliare sul vivo. Non si può gestire un' azienda a forza di iniezioni di negatività. Non si possono creare soltanto paure nei propri figli, e pensare che gli faccia bene».
Stefano Gabbana Stefano Gabbana è nato il 14 novembre 1962 a Milano. Grafico pubblicitario, neppure ventenne nello studio di Giorgio Correggiari dove lavora conosce il siciliano Domenico Dolce di quattro anni più grande. Il loro marchio debutta nell' ottobre 1985 tra i giovani stilisti di Milano Collezioni. Sportivo, amante dei cani Labrador (ne ha tre: Dalí, Rosa e Totò), è molto interessato alla tecnologia (è su Twitter: @stefanogabbana ). Collezionista d'arte, ha gusti classici (Chagall, Dalí: il sogno impossibile è un Caravaggio) che contrastano con i gusti contemporanei di Domenico Dolce (Basquiat, Fontana, Damien Hirst).
Domenico Dolce è nato il 13 agosto 1958 a Polizzi Generosa (Palermo). Fin da ragazzino collabora con il padre nell' azienda di abbigliamento di famiglia e giovanissimo arriva a Milano con il sogno di diventare stilista: «Milano è la città che mi ha accolto diciottenne, dalla Sicilia, quando sognavo di diventare stilista. Il mio sogno si è realizzato, si è esaudita la preghiera che indirizzai alla Madonnina la prima volta che vidi il Duomo». La sua ispirazione principale resta la Sicilia, nutre un grande amore per l' architettura moderna, non è appassionato di gadget tecnologici, ama «il vintage e gli astronauti», il passato e il futuro.
Dolce & Gabbana 1,1miliardi di euro di giro d'affari nel 2011 (era 1,03 miliardi nell' anno fiscale precedente). L' Ebitda (cioè l' utile prima di interessi, tasse e ammortamenti) è invece salito a 284,8 milioni di euro da 262,1 milioni dell' anno precedente Gli investimenti nel retail sono di 40 milioni di euro.
Magazine Lifestyle
Dolce & Gabbana si raccontano al Corriere della Sera: «La forza del made in Italy sono le aziende famigliari»
Creato il 11 marzo 2012 da Dg_victims @DG_VICTIMS
Il made in Italy della moda affronta la concorrenza del modello francese dei grandi gruppi industriali - che l' anno scorso si sono aggiudicati Bulgari (LVMH) e Brioni (Ppr) - ma il futuro, secondo due degli stilisti che rappresentano l' alternativa italiana a quel modello, è al sicuro. Dicono Domenico Dolce e Stefano Gabbana: «La nostra è un' azienda di famiglia che negli anni è diventata un' industria. Nel 2000, quando ci venne fatta la proposta di vendere, rispondemmo no per gli stessi motivi per i quali lo faremmo oggi. Da Ferrari a Barilla sono tantissime le aziende di successo mondiale a tutti i livelli, pensiamo anche a un Giovanni Rana: nel nostro Paese la tradizione è quella. Le famiglie. Chiedete oggi a chi ha venduto qualche anno fa... c' è chi si sta mangiando i gomiti». Il valore del made in Italy come marchio, al di là delle singole realtà, è immune dalla crisi? «Tutto quello che è pensato in Italia con gusto italiano ha valore mondiale. E quando all' estero dicono pizza e mandolino credendo di insultarci? Noi siamo orgogliosi di pizza e mandolino! Il cibo italiano e la musica italiana sono ovunque, come l' arte. Non è elegante avere complessi di superiorità: ma che i figli di Michelangelo e Leonardo che vivono in città che sono musei a cielo aperto soffrano di complessi di inferiorità è assurdo. E verso chi poi?». Però non si può dire che l' economia italiana sia in crescita... «Perché purtroppo tutto si quantifica col soldo, e certamente ci sono aziende in difficoltà. Ma non c' è niente da invidiare agli altri». I grandi gruppi francesi garantiscono espansione e sinergie: un' azienda come la vostra quale modello contrappone? «Quelli che hanno 18 marchi e magari soltanto due vanno veramente bene? E magari sono i due che producono in Italia?... Bisogna sfatare il mito del grande gruppo come unica via. Noi due decidiamo senza sottoporre nulla a un comitato di manager. La libertà non ha prezzo. Come dire: più belle le donne italiane o le francesi? Sono belle in modo diverso». E i rischi del sistema «all' italiana» quali sono? «Siamo i primi ad arrivare e gli ultimi a uscire ma lunedì scorso mi sono preso un giorno libero e quasi mi vergognavo... - sorride Dolce - Non bisogna dimenticare mai che l' azienda deve poter andare avanti da sola. Se c' è un rischio nel modello familiare italiano è che l' azienda segua l' umore del titolare. Le aziende, come i figli, quando sono grandi devono sapersela cavare senza i genitori». In un periodo di crisi non è più semplice avere alle spalle una realtà industriale più variegata? «Quando c' è crisi un grande gruppo ti aiuta, ma è un problema di obbiettivi. I soldi a noi servono per reinvestirli nell' azienda, ci piace vedere sempre più persone che si vestono Dolce & Gabbana. Non abbiamo l' ossessione della Borsa». A che punto è la vostra questione con il Fisco? «La stanno gestendo i nostri consulenti. Personalmente siamo molto amareggiati della vicenda ma, siccome siamo assolutamente sicuri di aver sempre operato nel pieno rispetto delle regole, siamo anche sereni. Ci chiediamo: ma come è possibile che pretendano di farci pagare delle tasse su soldi che non abbiamo mai incassato? Vogliamo essere fiduciosi che, come è già successo, verrà alla fine riconosciuta la nostra innocenza. Deve finire per forza bene». L' Italia è un Paese dove si può ancora fare impresa in modo indipendente? «Noi abbiamo cominciato nel 1985 e abbiamo fatto fatica anche allora. Ma chi ha qualcosa da dire riesce ancora a farlo come dimostrano tantissime aziende, anche piccole. E le tante start-up create dai giovani, al nord come al sud». Uno dei «mantra» manageriali degli ultimi anni è: tagliare. «Attenzione: una cosa è tagliare il superfluo, un' altra è tagliare sul vivo. Non si può gestire un' azienda a forza di iniezioni di negatività. Non si possono creare soltanto paure nei propri figli, e pensare che gli faccia bene».
Stefano Gabbana Stefano Gabbana è nato il 14 novembre 1962 a Milano. Grafico pubblicitario, neppure ventenne nello studio di Giorgio Correggiari dove lavora conosce il siciliano Domenico Dolce di quattro anni più grande. Il loro marchio debutta nell' ottobre 1985 tra i giovani stilisti di Milano Collezioni. Sportivo, amante dei cani Labrador (ne ha tre: Dalí, Rosa e Totò), è molto interessato alla tecnologia (è su Twitter: @stefanogabbana ). Collezionista d'arte, ha gusti classici (Chagall, Dalí: il sogno impossibile è un Caravaggio) che contrastano con i gusti contemporanei di Domenico Dolce (Basquiat, Fontana, Damien Hirst).
Domenico Dolce è nato il 13 agosto 1958 a Polizzi Generosa (Palermo). Fin da ragazzino collabora con il padre nell' azienda di abbigliamento di famiglia e giovanissimo arriva a Milano con il sogno di diventare stilista: «Milano è la città che mi ha accolto diciottenne, dalla Sicilia, quando sognavo di diventare stilista. Il mio sogno si è realizzato, si è esaudita la preghiera che indirizzai alla Madonnina la prima volta che vidi il Duomo». La sua ispirazione principale resta la Sicilia, nutre un grande amore per l' architettura moderna, non è appassionato di gadget tecnologici, ama «il vintage e gli astronauti», il passato e il futuro.
Dolce & Gabbana 1,1miliardi di euro di giro d'affari nel 2011 (era 1,03 miliardi nell' anno fiscale precedente). L' Ebitda (cioè l' utile prima di interessi, tasse e ammortamenti) è invece salito a 284,8 milioni di euro da 262,1 milioni dell' anno precedente Gli investimenti nel retail sono di 40 milioni di euro.
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