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Dolci visto da Montanelli

Creato il 28 dicembre 2014 da Casarrubea
Indro-Montanelli-

Indro-Montanelli-

Ricorre il 30 dicembre il 17° anniversario della morte di Danilo Dolci. Per ricordarne la memoria e l’atteggiamento con cui alcuni intellettuali italiani lo accolsero, riporttiamo un raro e introvabile articolo comparso sul Corriere della Sera, un giorno del 1957 quando, per incontrare il grande sociologo triestino fu inviato in Sicilia Indro Montanelli, uno dei suoi migliori redattori. Danilo Dolci era nell’isola da oltre cinque anni. Riportiamo l’articolo nella sua stesura integrale rinviando per il commento al libro “Piantare Uomini”, pubblicato nello scorso mese di giugno da Castelvecchi. Qui ci limitiamo a mettere in evidenza l’atteggiamento razzista e diffidente del noto giornalista che si presenta a Danilo sotto falso nome.

Incontri
Danilo Dolci
di
Indro Montanelli

Forse fino a ieri nessuno a Palermo, salvo quelli che ci abitano e i loro immediati vicini, conosceva il vicolo Cascino.
Esso, a dire il vero, non è neanche un vicolo, ma una specie di cortile strozzato, sotto una rampa di scale precipiti e sbocconcellante, nel cuore di una delle molte “Casbah” sopravvissute un po’ dovunque al margine delle strade principali. Ma esso ora ha acquistato una improvvisa notorietà perché vi ha preso stanza “chiddu chi fa u digghiunu”, quello che fa il digiuno.
Non che i contradaioli si scomodino per andarlo a vedere. Non sanno nemmeno che si chiama Danilo Dolci. Ma si sono abituati a fornire l’indirizzo ai turisti stranieri che glielo chiedono e che sono i soli ad occuparsene. “A chiddu che fa u digghiunu cercate? Dritto andate, ‘a secunda a destra pigghiate, u passaggiu a livellu attraversate. E là sta”.
La sera andai a vederlo col mio amico Caronia, nel cortile fu difficile aprirsi un varco tra i bambini che lo affollavano, perché Dolci offriva ai visitatori un film americano fornitogli dall’U.S.I.S. Tanto che dovemmo attendere che lo spettacolo finisse per poter entrare nella stamberga senza il rischio di morirvi soffocati. E ingannammo l’attesa aggirandoci nelle viuzze circostanti, dedaliche, dal selciato sconnesso e scivoloso di foglie di cavolo e di bucce d’arancia, fra una doppia fila di fornelli a carbone dislocati fuor della porta dei bassi, e su cui fumigavano pentoloni maleodoranti. Sul nostro capo pendevano gli scampoli di una biancheria multicolore tesa ad asciugare lungo i fili di ferro che congiungono le opposte facciate.

Di diverso dalla “Casbah” vera, quella di Algeri, c’è una sola cosa: le occhiate della gente fra cui si passa, che laggiù fra gli arabi, sono cariche d’odio e di diffidenza. Qui, no. A sedere davanti agli usciolini spalancati, su uno sfondo di pentole appese al muro come altrettanti ex voto, torno torno la spalliera dell’unico letto in cui l’intera famiglia dorme, le donne che fanno crocchio, chi covando un figlio nella pancia gonfia, chi allattando a una scoperta mammella (allo stato normale, senza impegni di maternità, non sono riuscito a vederne) ti guardano senza rancore né sospetto e, se le interroghi, rispondono cortesemente, anche se non sempre intelligentemente. “E lei, signora, non va a vedere a chiddu?” “Io no. Io tengo due etti di pasta. ‘U saziu non cride a ‘u digghiunu”, il sazio non crede al digiuno, rispondono, ma senz’astio. Poi ci scrutano, credono di percepire nel nostro volto una sfumatura di disappunto, si immaginano che siamo amici, o soci, o complici del digiunatore, e aggiungono, rimescolando la pasta col mestolo: “Mischinellu!”. Ma niente sanno di lui, né che si chiama Dolci, né che vive a Trappeto, né che ha sposato una donna del posto, e nemmeno chi sia ad avergli affittato la stamberga in cui egli è venuto ad offrire quel fachiresco spettacolo del quale non afferrano il senso e le finalità. Sanno solo, vagamente, che è continentale e questo esime dall’indagare certi perché. I continentali hanno delle ragioni che la ragione (siciliana) non conosce.

C’è quiete in questi vicoli, stasera che la ragazzaglia è stata risucchiata dall’improvvisato cinematografo di Danilo. Le mamme vorebbero ch’esso continuasse più del digiuno che invece domenica finirà. Di uomini se ne vede pochi. Ogni tanto ne passa uno, con la coppola in testa, che sfiora quei capannelli di femmine con uno sgaurdo padronale e torvo, senza salutarle. Un venditore ambulante incede spingendosi innanzi un carretto di mercanzia asiatica e lanciando, a mo’ di richiamo, un grido straziante, assolutamente sproporzionato all’angustia di quel loculo, e che sembra venire da lontananze, più che di chilometri, di secoli. Le ruote urtano, rovesciandolo, un cumulo di rifiuti che nessuno spazzino verrà mai a sgomberare e in cui un cane dalle più incerte ascendenze sta sfrugando con una coscienziosità proporzionale alla fame. Sotto una gronda un po’ più bassa della mia testa, una Madonna in oleografia prega per tutti. In nome Suo il parroco ha distribuito una circolare stampata, in cui sta scritto: “Ti prego, Madonna, di farmi la grazia …”. Segue uno spazio in bianco che ognuno può riempire dei propri desideri. Poi le suppliche saranno riconsegnate al prete che ne farà un gran falò e dirà una Messa per scongiurare la Patrona di esaudire quelle suppliche.

Un ronzio d’alveare in sobbollimento interrompe le nostre osservazioni. Lo spettacolo cinematografico è finito e, come budella da una ferita nella pancia, dall’usciolino della stamberga fuoriesce un palpitante e strepitoso verminìo di pargoli, che si incalzano, si sospingono, si strusciano, si azzuffano, si graffiano, urlano, ridono, piangono sotto il pungolo di un guardiano che li incalza a spintoni e scappellotti. Sballottati noi stessi da quella colata infantile, che pervicacemente torna ad ondate all’attacco dell’antro nella speranza di una seconda proiezione, ci appoggiamo sgomenti al muro di fronte chinando la testa per non sbatterla nella tettoia. Accorse per le operazioni di recupero delle loro rispettive figliolanze, le mamme collaborano alacremente, coi loro urli e dimeni, alla generale confusione. Vedo una ragazza di tredici o quattordici anni, incinta, depositare il fantolino che teneva in braccio dentro un bidone di spazzatura, per trarne a salvamento un altro che annaspa sotto un groviglio di corpi cascatigli addosso. Altre donne, in cima alla scala, guardano e chiamano, ma stancamente, senza impegnarsi, seguitando negli intervalli a chiacchierare tra loro. Una di esse ha le labbra tinte di rossetto e la radice dei capelli più nera delle ciocche bionde che le spiovono sulle spalle. Non so quando, ma certo un giorno non molto lontano, è uscita dal vicolo Cascino per andare a farsi ossigenare. Poi è tornata nel suo “basso” di una sola stanza, con un solo letto per sei o sette persone e col fornello fuori della porta.
Finalmente possiamo entrare, ma sulla soglia ristiamo un attimo col fiato mozzo dal tanfo e dal caldo. E guardiamo esterrefatti lo stambugio, che non misura più di quattro metri per largo, né più di sette per lungo. Diavolo, come faceva a contenere quel po’ po’ di pubblico?
Contro la parete di faccia, si allineano due brande, sovrastate da un manifesto giallo, in cui è riprodotto quell’articolo della Costituzione della Repubblica italiana con cui si riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. E’ un bellissimo e nobile impegno. Peccato che non suggerisce neanche i mezzi per poterlo in qualunque caso applicare. Accanto ce n’è un altro, che annunzia per domenica prossima una conferenza di Carlo Levi sull’argomento.
Sulle brande giacciono Danilo Dolci e il suo fedele discepolo Allasia (sic). Ambedue digiunano ormai da cinque giorni, ma la loro corpulenza è rimasta ragguardevole. Solo il volto è un po’ pallido e imperlato di sudore per l’umidiccia calura dei fiati e dei corpi nella ressa di poco fa. Con un gesto cortese, il Maestro ci invita a farci avanti, e quando siamo a portata di mano ce la tende. Caronia declina il suo nome vero, io ne invento uno inventato lì per lì, e sediamo al capezzale del digiunatore, che ci scruta, con aria sospettosa, in silenzio.
“Siete della polizia”? chiede alla fine.
Il mio compagno, che è siciliano, ha un guizzo d’indignazione. “Sono architetto” precisa. Il corpo del Maestro si illumina, i suoi occhiali scintillano, perché anche lui è architetto, o meglio avrebbe voluto esserlo; non c’è riuscito, ma ciò non gli ha vietato di essere nominato membro dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Si drizza a sedere sulla branda e inizia con Caronia una serrata discussione sui nuovi quartieri di Palermo, che da dieci anni sono erigendi.

Lasciato a margine di quel dibattito tecnico, mi consolo sfogliando il libro che il digiunatore tiene sulle coperte. Sono le poesie dell’Abbè Pierre, e cominciano con questi solenni e ammonitori versi: “Si l’on peut tricher avec l’honneur, on le peut pas avec la salut”, se si può barare con l’onore, non lo si può con la salvezza. Bello. Biblico. Ma come si farà a barare con l’onore?
Vorrei chiederlo al Maestro, ma è troppo impegnato nella sua discussione di urbanistica. Allasia tace guardando il soffitto, non aprirà bocca per tutta la seduta, e non mi sembra uomo da poter rispondere a simili interrogativi. Oltre a noi, ci sono nell’antro altri tre giovanotti, a sedere su una panca lungo la parete di fronte. Certo si tratta di discepoli, anche se non digiunano. Ma sono impegnatissimi a leggere un giornale di cui non discerno il titolo.
Cerco, per distrarmi, di appassionarmi al dibattito di architettura. Dolci parla dolcemente in difesa della tesi per la quale digiuna: prima di fare le case alla gente, assicurarle l’occupazione. Il suo volto è pacioso, regolare, ben rasato. “ Se si può barare con l’onore, non lo si può con la salvezza” torna a ronzarmi nella testa. Ah, come mi piacerebbero questi versi, se riuscissi a capirli! Guardo di nuovo Allasia, che a sua volta fissa il soffitto con aria estatica, come se vi vedesse trascorrere in dissolvenza vassoi fumanti di fettuccine al doppio burro e di filetto al sangue. Una domanda sulla conciliabilità del baro con l’onore sarebbe, in quell’aura di rapimento, del tutto fuori luogo.
I miei occhi si riposano sui tre discepoli immersi nella lettura del giornale che quello di mezzo tiene piegato sulle ginocchia. Oh, finalmente! Il suo compagno di destra dà un segno di vita. Si muove, raddrizza il busto, lo appoggia alla parete. E prorompe con aria stizzosa: “Ma picchì vogliono mettere Nicolè al posto di Ghiggia?”.
Il loro Maestro non ha udito e seguita a parlare con appassionata dolcezza della “piena occupazione” come unica condizione di salvezza del popolo della “Casbah” palermitana. Anche lui, come l’articolo della Costituzione che gli oscilla sul capo, si guarda dal suggerine i mezzi.
Ma il sospetto che questa Crociata senza Gerusalemme egli digiuni davvero, mi turba quasi quanto i versi dell’Abbè Pierre.

Per un approfondimento su Dolci clicca qui:

 Giuseppe Casarrubea, Piantare Uomini, Castelvecchi, 2014


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