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Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque

Da Ellisse

Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acqueDomenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque - Ladolfi Editore, 2012
Un'opera prima che non è un assoluto libro d'esordio, grazie a Dio. In primo luogo perchè l'autore non è per me un  nome nuovo, essendo già  passato su questo blog (v. QUI), e poi perchè Ingenito ha la sua particolare costellazione, e pochi alibi in odor d'inesperienza o giovinezza, al contrario una cultura che lo sostiene e nutre. In altre parole, una certa consapevolezza dei mezzi e poca necessità di dimostrare alcunché. Un libro ponte, direi. O forse ecumenico, o sincretico. Ovvero costruito sulla necessità primaria di porsi (come autore) in un centro geografico, sentimentale, stilistico, culturale, e anche in qualche modo nostalgico. Come tutti i ponti il suo consistere è fatto di tensioni ed equilibrii, a volte difficili da mantenere. Del resto Giuliano Ladolfi, nella nota di chiusura, parla di "provvisoria sospensione tra due abissi". Ma chi non risica non rosica. Parlando di tensioni, di centro, di equilibri, ripartirei da quanto avevo lasciato in sospeso un paio di anni fa. Allora avevo fatto riferimento, a proposito dei testi di Domenico che avevo pubblicato su Imperfetta Ellisse, ad alcuni snodi importanti e potenzialmente in progress. Che qui rinveniamo soprattutto nella prima parte del libro, nella quale ritrovo (VEDI) l'emblematica poesia-luogo Lisbòna - Tehràn, doppi fuochi di una traiettoria anche esistenziale, come anche (e vedremo le ragioni) "affioramento linguistico di un oblio incantato, dove l'italiano mi è materia vocalica estranea". Si trattava in breve, a mio avviso, di un debito che Ingenito riconosceva a una cultura non sua come quella persiana - o orientale in genere - a cui si era abbeverato, anzi una qual certa supremazia poetica, icastica, eidetica, una ricchezza lirica sorgiva che accomuna con affascinante crasi l'antico e il moderno. Si trattava anche, quindi, di un rovesciamento di identità culturale, un innamoramento se volete; si trattava di una sostituzione del canone o della reinvenzione di una tradizione, di un traghettamento. Qualcosa che a me piaceva definire, esagerando, una reincarnazione, o una simulazione di metempsicosi. Qualcosa di più, se posso dire, rispetto al "tentativo di riappropriarsi di una Retorica, quale essa sia; di un sistema di espressione che ritorni valido e significante soltanto se scontato dal sangue della propria esperienza" che rimarca Tommaso Di Dio nella sua prefazione. Certamente sì, anche questo. Ma perchè? Io credo che, da questo punto di vista, Ingenito faccia parte anch'egli della "generazione entrante" in cui (cito Stefano Guglielmin) "il sentimento dell'orfanità (...) attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo dove il presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una volta compreso che sul futuro non si può più scommettere e che il passato è responsabile di tutto questo". Ma questo orphanage Ingenito lo risolve a modo suo, spostando decisamente lo sguardo verso un altro orizzonte che rende addirittura ridicolo il problema dell'eterno presente, e forse il concetto stesso di modernità. Se il "passato che è responsabile di tutto questo" fosse per caso il Novecento italiano che tutti cerchiamo di scrollarci di dosso, Ingenito lo ignorerebbe bellamente, ricostruendo un altro passato in cui possono coesistere tranquillamente Gaspara Stampa e Petrarca, l'amatissimo Hafez o una sconosciuta (per me) poetessa persiana trecentesca. Ingenito, come ho avuto modo di dirgli in altra sede, è felicemente antimoderno (o se volete discretamente inattuale, nel senso nicciano del termine, cioè agendo "sul" tempo e contro il tempo), l'elemento in cui si muove è principalmente lirico, direi per forza di cose; il linguaggio è ampio, anche nei testi più sintetici, e comunicativo. Compagna del lirismo, spesso orfico, è una certa aria di mito che si respira a tratti, forse di idealizzazione anche della stessa poesia, che però è idea forte, quasi (si potrebbe dire senza troppi timori) mistica. Lo stesso presente, con questa lente, diventa diversamente interpretabile, e forse sopportabile con meno dolore, come per chi affronta il deserto con qualche libro nello zaino. Poi Domenico naturalmente si (ci) ricorda di essere anche un poeta dell'oggi. Come per tutti i ponti la missione del libro è l'attraversamento di un vuoto, sia che esso avvenga con passi pesanti oppure leggeri come il rapido camminare sulle acque del titolo. Non so se Ingenito abbandoni con qualche inquietudine la terra sicura della prima sezione del libro, "L'angelo e il fuoco" in cui optime manebat, si trovava bene, ma certo hanno ragione altri commentatori, a cominciare dal prefatore Tommaso Di Dio, a sottolineare la centralità (il fulcro, direi) de "Il basilisco", seconda sezione della raccolta, dove proprio la doppia natura dell'animale, reale creatura capace di correre sulle acque da una parte e figura mitologica dall'altra, diventa simbolo e veicolo di un passaggio tra diversi mondi, sguardi, tempi. I passi corti e leggeri del poeta/basilisco sulla tensione superficiale delle cose sono forma riflessa in una  concisione dei testi (e in alcuni versi folgoranti) quasi aforistica che è tutta moderna (Di Dio acutamente richiama Porta e io penso a un quasi altrettanto mitico "Airone"), con un interessante prosciugamento del testo, come se il passare all'oggi fosse inscindibile da una frammentata visione dell'evento in cui il linguaggio "deve" rispecchiarsi (ma gli echi che dalla superficie si diffondono sono profondi, e il vuoto, gli interstizi, anche per noi lettori vengono alfine attraversati).
La terza sezione, "La mandragola", sembra riassumere una circolarità dello sguardo, gettato da quel centro di cui si parlava all'inizio, uno sguardo che ricomprende, nel parlare di amore forse terreno forse trascendente o magico, da una parte voci e andamenti della terra da cui Domenico aveva preso le mosse, dall'altra un linguaggio ancorato saldamente e senza sbavature alla sua stessa ispirazione. Una parte in cui la ri-creazione di una tradizione su misura a mio avviso consegue un risultato di rilievo. Se nella mia precedente nota esprimevo in chiusura il velato dubbio che la poesia di Ingenito, se "depurata" dalla potenza di una fascinazione culturale (da cui comunque forse qualche distanza in seguito si dovrà prendere), potesse residuare in un lirismo non del tutto originale, credo ora di poter affermare come da certe affinità elettive sia scaturito al contrario un libro personalissimo e maturo.
da L'Angelo e il Fuoco
HAI FATTO PRESTO
Hai fatto presto ad andartene
prima che del buio prendesse l'odore
il fiore delle tue mani,
e faccio presto a ricordare
come avevo lasciato le cose quel mattino
che di corsa da qui sono partito.
E solo adesso ritorno nella casa abbandonata
dalla memoria, dove anche l'aria
è andata via con te,
e quel profumo nero di chi presto
nel sonno scompare.
Raccolgo le tazze,
il fondo del tè dopo una settimana addolorata,
la frutta morta che piange
e si disfa nella stanza del cuore,
i bicchieri di una festa finita
troppo in fretta.
Respira,
respira ancora ti dicevo,
pregandoti di non parlare,
implorando che non una parola ancora
uscisse da quelle labbra che tanto
mangiarono la terra che un po' uomo m'ha fatto.
Respira, dònati ancora tutta l'aria
che un piccolo spazio nel tuo petto
può accogliere. Io no,
non ho mai visto il tuo sangue,
solo allora ci pensavo, mentre sotto la mia mano
il calore tuo crollava verso lo zero
di chi all'ossigeno rinuncia
per accogliere in un'altra costa
il fiato del silenzio.
La chiamano pace questa forma del corpo
che si offre al pianto,
e all'appassire dei fiori sul letto,
è del sangue tuo invece la pace
che nella notte si è raccolto
d'un sol fiato mentre sei scivolata
aggraziata e distratta.
Con forza ho potuto metterti
una pietra sulla fronte, ma non posso
adesso sapere come afferrare
la pietra da ripormi sul cuore.
***
Questo alla fine ci siamo donati
la stazione di rinuncia e attesa
dicono che avremo un secondo tempo
ma temo, serenamente io temo
che primo tempo nostro
fu il tempo prima dei giorni
quando mescolarono alla mia argilla
l'acqua chiarissima dell'amarti mio.
Come intristirmi allora, adesso che
quel che ho perso, donato in sacrificio
a me così magnificato torna
nella potenza della tua assenza.
Fatti spazio in queste braccia, amplissima notte
potrò donarti in fine silenzioso
i segni del mattino più sincero.
***
[Se tu solo sapessi
la tauromachia che nelle vene mi galoppa
l'ansia d'averti che nel sangue attarda,
oppure la vampa che irrorata dagli occhi
dei miei capelli fiaccola violenta]
da Il basilisco
L'ora di levare i piedi dal suolo
quando è il tempo che tutto si concluda
e s'appresti ad esser detto
in altro spazio.
***
Le gambe potranno poi sostenerci
in strada, ma con braci
nei talloni.
***
A piedi amputati e dita spezzate
potrò dire il nome tuo
perché tu innesti le ali dove la schiena si spacca
e da dove il sangue io riverso
il vino m'attraversi le vene.
***
Mi risuoni dentro come l'acacia
quando a luglio è infestata dalle api.
da La mandragola
Vorrei attardarmi in te ancora un poco
coprire la distanza tra il battito e il respiro
dominare, per condurre a metro
l'aritmia tua tra vena e fiato.
La forza misurata, compassata
di chi lacerando ama.
***
Dobbiamo imparare a vivere
come le varianti periferiche
di quelle pure lingue nazionali.
Cosa sanno le damigelle bianche
di Lisbona della furia vocalica di Faial
dove la voce delle coltivatrici di rabarbaro
nelle Azzorre risuona come i giovani
campestri degli orti khorasanici?
Assediamo le tristi capitali
che i palazzi ritornino al tufo
di paesi arrampicati sui colli.
Le teleferiche abbattute
da uno sciame di dialetti,
le case illuminate
dalle storie d'Asia centrale tornate a Cuma
come la Volubilis d'Atlante, romana
voluttà, dove qui sono i leoni.
***
Di questi freddi tutto può accaderci
e se il merlo ti visita al mattino
per portar via quelle bacche rosse
mentre i piccioni si affannano
con tutto quel che resta della neve
allora non è vero che Sbarbaro
- come ci dicevamo -
non sa come finire le poesie.
Anche noi, lo riconoscerai
siamo ormai oltre il senso della fine.
Possiamo anche mai più parlarci
lo faranno per noi...
no, non lo so chi per noi potrà farlo.
Quello che ritrovo, tutto in te riperdo.
Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque

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