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Domenico Giuliotti: “Raccontini rossi e neri” (1937)

Creato il 15 novembre 2011 da Viadellebelledonne

Domenico Giuliotti: “Raccontini rossi e neri” (1937)Definito da Giuseppe Prezzolinicattolico belva” per il suo cattolicesimo mistico e intransigente, polemista appassionato e irruento, amico di Giovanni Papini (insieme al quale scrisse “Dizionario dell’omo salvatico” – nel senso di “uomo che si salva” -, 1923) e di Federico Tozzi (si parla di una influenza reciproca), Giuliotti fu un protagonista della letteratura del primo Novecento. Alcune sue opere: “L’ora di Barabba”, del 1920, che resta forse il libro più celebre; “Tizzi e fiamme”, del 1925; “Polvere dell’esilio”, del 1929; “San Francesco”, del 1932; “Il ponte sul mondo”, del 1932; “Le due luci: santità e poesia”, del 1933; “Il merlo sulla forca: Francesco Villon”, del 1934; “Pensieri di un malpensante”, del 1936; “Jacopone da Todi”, del 1939; “Penne, pennelli, scalpelli”, del 1942. Fu anche poeta.

Raccontini rossi e neri” è del 1937.

I racconti, dalla scrittura ancora piacente, leggera e limpida, mostrano un Giuliotti un po’ diverso, lontano dalle sue furie di vigoroso polemista; desideroso, al contrario, di una apertura alla vaghezza e al sogno, anche se, come avverte lo stesso autore nella premessa, coltivati sul filo dell’abisso.

Ambientati talvolta in un’epoca lontana, eroica e leggendaria, essi ci lasciano intuire una vocazione intima, cullata forse da sempre e resa finalmente nell’età adulta (era nato a Luciana, nei presso di Terrazzano, nel 1877; morì a Greve in Chianti nel 1956), quando la forte esperienza della vita lo conduce ad una aspirazione meno compromessa e più fantasiosa.

Fatti che appartengono al mito – simili ai tanti ereditati dalla classicità – e al mondo della favola, sono narrati con la chiave di chi si proponga di aprirci le porte di una verità nascosta dalla polvere invadente dell’apparenza. Alessandro il Grande, Pipino il Breve (del quale scrive – è anche un esempio del suo stile brillante -: “Quand’ebbe vent’anni diventò re e prese moglie. Gli appiccicarono un graticcio che non gli faceva figlioli. E a lui, per l’appunto, come re, i figlioli gli ci volevano.”, e in riferimento al cui matrimonio si narra della sventurata Berta, figura che assomiglia un po’ a Biancaneve e un po’ a Cenerentola), il rapimento di Calliroe per sacrificarla a Bacco, e così via, sono più che l’espressione di una storia; sono il sogno che si dibatte per liberarsi delle ombre e prendere il volo sopra la stessa vita.

È la differenza che si dispiega tra questi racconti e il mito classico paganeggiante; tra questi racconti e le fiabe nonché le novelle che abbiamo imparato a conoscere, nelle quali la sapienza popolare si limita a riprodurre il mondo della fantasia assumendolo in un’altra dimensione, e mai come aspirazione che invochi da noi lo sguardo, complesso e rivelatore, verso il cielo.

Il racconto del pirata Annibale Foravento, che non riesce a farsi assolvere dai suoi peccati da nessun confessore, tanto sono terribili, è un esempio: “Ci si pente d’essere stati birbanti, si vuol ritornare all’ovile, si sa che il Signore compatisce e perdona, e poi si trovano certi ministri di Dio che nel posto del cuore ci hanno un sasso.”

Anche Orosio, da ricco diventato povero, cade nelle grinfie del diavolo tentatore a cui cede la sua ombra, riuscendo solo all’ultimo a redimersi.

Giuliotti, da cattolico radicale, disegna in taluni suoi personaggi i peggiori lutti e le più abiette perversioni dell’anima, per poi lasciarla assolvere, anche se non sempre (come avviene al re Leonbruno protagonista del racconto “La camicia della felicità”), dalla redenzione.

La sua scrittura rimane così gradevole e lieve che non eccede mai nella pedanteria e nel moralismo ad ogni costo, lasciandosi perfino apprezzare per le sue composte fantasie: “E ora state a sentire il fatto d’un Califfo che successe in quella medesima città nell’anno Domini 1225.” La città è Bagdad che “aveva, se le storie non son favole, più di due milioni di abitanti”, dove un Califfo pretende che i centomila cristiani che la abitano dimostrino, pena la morte, la verità delle parole del Vangelo, secondo le quali un piccolo granello di fede può smuovere una montagna. Sarà un ciabattino di nome Voka, “il più povero, il più umile, il più disprezzato degli uomini.” che, tra le tante preghiere, conosceva solo l’Ave Maria, a toglierli dall’impiccio. Giuliotti non si sottrae a qualche arditezza stilistica: “questa ragazzina era tanto bella, che bella come lei non ce n’era un’altra chi l’avesse cercata in tutto il mondo”. Si tratta della figlia del re Melanione e della regina Telesfòra, personaggi che appartengono al racconto “L’oca filomèla”.

Un’atmosfera orientaleggiante, da “Le mille e una notte”, o da sinistro Rinascimento (si veda lo studio dell’astrologo in “Crepi l’astrologo”), pervade molti racconti, che sono tributari tutti, comunque, di una tradizione favolistica tanto antica quanto diffusa nel mondo, così che le suggestioni che trasferiscono su di noi, striate di sentimenti e coloriture diverse, rendono ampio ed universale quel senso di redenzione e di scioglimento nella fede che li ispira. Dice un povero mendicante ad una giovane fornaia che ha paura di fargli la carità per non incorrere nel taglio delle mani ingiunto dal cattivo re Alì: “Sorella, più su del Re c’è Dio, non aver paura.”

Una particolare attenzione viene posta dall’autore ai nomi dei suoi personaggi, tutti in grado di dare il sapore di antico e anche di qualcosa che si trovi collocato altrove, in un altro tempo e in un altro spazio: Orosio, Perenta, Campriano, Lucippo (questi ultimi tre, protagonisti di un esilarante racconto, “Il merlo e gli allocchi”, in cui la figura dell’astuto Campriano può stare alla pari di un Ligurio del Machiavelli, o di un Volpone di Ben Jonson, i primi che vengono in mente), Meo e Mea, Crisalide, Pelòpida l’astrologo, Iduina, Teofilo e Polissena (del racconto “La pianta di ginepro”, che tratta boccaccescamente della fedeltà scostante della donna).

Non mancano parole e espressioni del popolino, che ravvivano la scrittura di una fiamma scoppiettante: “ebbi dicatti”, “a saccaceci”, “arrenava le posate”, “se lo pigliava addio pinco”, “farne paniccia”, “capì la ragia”, “quando potevan buscare un seccarello era bazza”, “tirar l’aiòlo”, “scodettava come una cutrettola”, “fare un taccio”, “credette d’averla morta”, ronchiò”, “filiggine”, “abbacare”, “sdarsi”, “citta”, “miscela”, “pulime”, “tarpano”, “gazzilloro”, “doccio”, “difraschìo”, “zughi”, “strolago” “cicollottola”, “formicola”, “scafarda”, “rusignoli”, “qualcosellina”, “mangani”, “biccicucca”, “granfie”.

La storia di Guerrino che nel suo viaggio affronta giganti e mostri, la quale ha anch’essa le sue radici molto lontano, è proprio dalla briosità della scrittura, dalla sua limpidezza e fiorentinità che mantiene ancora oggi tutto il suo incanto e la sua bellezza. Nella favola delle due mosche incontentabili, la mosca femmina, nel frattempo trasformata dall’uccellino azzurro in leonessa (è ancora una volta – una caratteristica delle favole – il genere femminile a mostrarsi ambizioso oltre ogni misura: “Ciò che donna vuole Dio lo vuole”), non esita a chiedergli nuovamente un favore, anche per il marito: “C’è venuto a noia d’esser leoni: si vorrebbe diventare omini; cioè io donna e lui omo. Si pole?”. Come non ricordare che l’uccellino azzurro è l’uccellino de “Il giardino della felicità” (“The blue bird”), un film delizioso di George Cukor, del 1976, interpretato da Elisabeth Taylor, la mamma di Mytyl e Tytyl, i bambini creati nel 1908 dalla fantasia di Maurice Maeterlinck?

Un altro esempio della cura con cui ci offre la sua fiorentinità: “Già, se la fosse stata innamorata davvero, lui un sarebbe andato a farsi strolagare e via discorrendo.”

Giuliotti è un raccontatore ammirevole per il piacere, il gusto e il divertimento che sa trasmettere. Al drago, contro cui combatte Guerrino, è rimasta solo la testa, essendo state recise con la spada tutte le altre parti: “e quando infine a quella bestiaccia non rimase che la sola testa con le fauci spalancate e la lingua fuori, Guerrino gli chiappò la lingua e, postogli un piede sul capo, con uno strattone glie la svelse come chi sbarba una rapa.”

Anche personaggi della storia come Santa Caterina da Siena e il feroce capitano di ventura Giovanni Aguto (l’inglese Giovanni Hawkwood), oppure Dionigi, il tiranno di Siracusa, vengono assunti dal favoleggiatore a protagonisti di leggende. Questi passaggi da una ambientazione all’altra, da un’epoca ad un’altra, da un tema ad un altro tema (si entra perfino nel mondo degli animali e degli insetti come in Esopo e inLa Fontaine), dànno modo di fare una ulteriore annotazione, ossia che il Giuliotti sa plasmare la sua scrittura alle novità narrative che affronta, così che la raccolta riesce a trasmetterci molte variegate suggestioni, risultando avvincente e portentosa.

A proposito della condanna che Dionigi, tiranno di Siracusa, decreta a carico di Filossène, colpevole di non aver apprezzato i suoi versi, gli amici che vanno da lui ad implorarne la grazia, così concludono, dopo aver tessuto le lodi di Filossène: “Sarebbe dunque un peccato che lo faceste amputare anche solo della testa.”

Il libro (il cui valore, in vero, è tutto concentrato nella prima parte) ne ha, a seguire, altre due, una delle quali, molto breve, intitolata “Intermezzo sentimentale”, è dedicata alla memoria. Vi troviamo la descrizione, attraverso appunto il ricordo, di un tram chiamato “Mangiacarbone” che faceva servizio nella città di Firenzesotto il placido regno di Umberto I”, sostituito dall’autobus. La seconda parte, “Mostra del Santaio”, è agiografica e legata strutturalmente alla prima, di cui può considerarsi un’appendice. Conserva la stessa freschezza e lo stesso timbro affabulatorio, infatti (si vedano, come esempi, l’incipit di “Leggenda di San Venceslao” e quello di “Uno strano martire”). Vi si narra di episodi che hanno riguardato la vita di alcuni santi: San Martino, San Cristoforo, San Venceslao, Sant’Antonio da Padova ed altri – tra cui uno pressoché sconosciuto ed invece assai eroico e originale, San Foca, vissuto nel IV secolo – che la tradizione religiosa ha tramandato per secoli e che oggi appaiono dimenticati. A Sant’Alessio dedica una composizione in versi e a Sant’Antonio da Padova un misto di prosa e di versi.

Al riguardo dei santi, un’opera più ampia verrà scritta nel 1958 da Piero Bargellini, con il titolo “Santi del giorno”, in cui, in modo più riassuntivo, e con qualche variante (non vi appare, nell’edizione Vallecchi del 1977, ad esempio, San Pacomio, ex soldato divenuto monaco, vissuto in Egitto nel IV secolo, e Santa Pelagia, del V secolo, donna bellissima, secondo la narrazione, non sempre accolta, di San Giovanni Crisostomo) ritroveremo alcuni degli episodi riportati da Giuliotti.



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