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Mi sono inventato il lavoro investendo qualche soldo di famiglia per acquistare la macchina dei miei sogni, una Fiat 1100 solida come un carrarmato. Mi chiamano piede amaro proprio per lei, l’auto che al cinema di Mico “il vichingo” ho visto guidata da Nino Manfredi. Resto parcheggiato tutto il giorno in piazza, scambio con gli amici parole, risate, imprecazioni per la Sisal sfuggita d’un soffio – ma la prossima volta non mi frega – e aspetto che qualcuno mi chieda di essere portato a Palmi, Bagnara o Reggio. Perlopiù faccende di ospedali e medici, avvocati e tribunali.
La piazza ha la vivacità lenta dei paesini di montagna. Di domenica diventa però un formicaio umano che rimbalza da una bancarella all’altra, occhi clandestini che dal muretto accarezzano morbidi fianchi distanti, apparentemente rapiti dai fichi d’india che le mani esperte della vagnarota sfilano dai còfani del mulo, sbucciano e porgono a ragazzi voraci, dieci lire ogni quattro frutti, fino a vuotarli.
Don Beniamino spunta dall’angolo del bar, saluta gli amici alle prese col tressette tra i tavoli che attraversa allegro, una pacca qua e una là, apre il sorriso e mi dà appuntamento per il pomeriggio: «Più tardi andiamo a bere un buon caffè».
Il caffè di don Beniamino “dura” almeno cinque ore. Un tempo sospeso tra i tornanti che lenti scivolano fino a Bagnara, alle spalle la mano protettiva dell’Aspromonte ad accarezzare il nostro cammino, di fronte lo Stromboli piantato sull’orlo del mare, nel punto in cui l’acqua si confonde con il cielo. Quindi di corsa verso Scilla, da superare a tutto gas come per sfuggire al latrato dei sei cani del mostro; infine Villa San Giovanni con i suoi fazzoletti di saluto per le fughe di vite dal finale altrimenti prevedibile, che sarà invece riscritto nelle Americhe o in Australia.
Al rientro, sul traghetto, don Beniamino si fa sempre incartare per la moglie un paio di arancini. Non le “arancine” della tradizione palermitana: l’aranciu è maschio, non femmina. E pazienza se nella “scuola” messinese hanno la forma conica della pera, non quella rotonda dell’arancia.
All’andata non consuma niente, concentrato com’è a pregustare con la mente l’aroma che inebrierà le sue narici al tavolino del bar “Irrera”, non appena sarà svanita l’estasi di un cannolo gigante. Vada a farsi fottere la glicemia alta: l’avrebbe detto pure Seneca duemila anni fa, che però giustificava un solo colpo di pazzia all’anno, non la puntualità settimanale di don Beniamino.
Peccati dolci come la crema di ricotta e le ciliegine candite che il mare di mezzo assolve, collocandoli in una realtà parallela, foderata con la carta da parati delle stanze dell’albergo “Monza” o “Del Sole”, dove don Beniamino s’intrattiene per placare bollori non ancora attenuati dall’incedere dell’età, mentre io inganno l’attesa davanti alle vetrine del viale San Martino.
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