Comincio a pensare che il sesso sia il grande assente - e l'ultimo problema - nei film che vogliono tematizzarlo. Ma l'amore sì, quello è un gran problema, quando due uomini e due donne si incontrano, a diverse distanze (ne avevo già scritto a proposito di Closer), per poi esplodere e/o fuggire via (nella migliore tradizione della drammaturgia americana in stile Who's Afraid of Virginia Woolf?).Prendiamo Sesso, bugie e videotape, un film firmato nel 1988 da Steven Sorderberg. Già la locandina non parla di trasgressione, ma di solitudine e di difficoltà, con tutti quegli sguardi che non si incontrano, quegli sguardi asimmetrici, il senso di freddo vuoto attorno ai volti: una fotografia filtrata di ghiaccio, di larghi spazi grigi, quasi scivolosi al tatto.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a quattro persone incapaci di vivere relazioni sane e durature, ma ancora più in difficoltà nel definire i loro rapporti come insani o provvisori. Legami obliqui e vite spezzate dal passato (i genitori citati, vecchi amori e nessun figlio), due uomini e due donne si isolano, congelano la vita in ricordi intransitivi, incapaci di agire sul loro presente, di modificarla.
Uno straordinario James Spader, vincitore di Palma d'Oro e Premio della Critica a Cannes 1989, è Graham (meraviglioso precedente dell'Alan Shore che popolerà di sé le cinque serie di Boston Legal). Graham è impotente e registra interviste a donne su argomenti sessuali. Nel suo cammino a ritroso verso la prima donna amata, Elisabeth, riincontra un compagno del college, John (Peter Gallagher) e ne conosce la moglie Ann (Andy MacDowell), nonché la trasgressiva cognata Cynthia (Laura San Giacomo).
Le vite complicate di questi uomini e di queste donne si incontrano come una sfida al tempo che passa, si scontrano sfacciatamente estranee ai loro problemi di vita. Sesso, bugie e videotape scorre via senza che nessuno di questi sia risolto o anche solo affrontato. L'impressione spiacevole consiste nel fatto che per tutto il film Steven Soderbergh non fa altro che mescolare le carte, sì che la configurazione finale, lungi dall'essere un happy end, è solo il momento in cui il film finisce nel modo in cui più ci si attenderebbe che finisse. Anche perché, come dice Ann, La felicità non è poi questa gran cosa.L'impressione è ancora più spiacevole se si considera che esiste nel film una precisa volontà descrittiva, che si segnala per uno spietato senso della misura (Sesso, bugie e videotape è tutto tranne che un film volgare o eccessivo, non ripeterò mai abbastanza che è perfino algido). Anche senza videocamera e domande indiscrete, senza prove di sfacciataggine eccessiva, Steven Soderbergh spinge a continuare l'indagine, di sapore carveriano, su ciò di cui parliamo davvero, quando parliamo d'amore.






