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Donne in Afghanistan: il difficile cammino per l’autodeterminazione

Creato il 27 giugno 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Vincenza Lofino

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Lo scorso 18 maggio il Parlamento afghano ha sospeso il dibattito parlamentare sulla questione della violenza sulle donne interrompendo così l’iter di approvazione della legge voluta nel 2009 dall’attuale Presidente della Repubblica, Hamid Karzai: giudicata dai conservatori “contraria alla sharia”, si interrompono così i faticosi progressi compiuti in tema di diritti di genere in un Paese ancora sotto la pressione dei talebani con i quali, peraltro, il governo sta tentando in questi giorni di intavolare una delicata partita negoziale.

Diritti umani: una questione urgente -Oggi hanno fatto sentire la loro voce forte e chiara i parlamentari che si oppongono ai progressi, ai diritti e ai successi delle donne” ha detto Fawzia Koofi, Presidente della Commissione parlamentare per le donne e aspirante candidata alle elezioni presidenziali del 2014, che più si è battuta contro i membri più conservatori dell’assemblea per l’approvazione definitiva del decreto in questione che, anche se largamente disatteso, è entrato in vigore quattro anni fa sotto l’impulso della comunità internazionale e – in particolare – degli Stati Uniti. Il dibattito scatenato tra i conservatori e i deputati più laici dell’Assemblea avrebbe portato al rinvio del provvedimento, senza fissare una data futura e avrebbe inoltre siglato la bocciatura di almeno 8 articoli proposti, tra cui: il mantenimento a 16 anni come limite d’età di una donna per sposarsi (si voleva abbassarlo o abolirlo); la sussistenza di ricoveri per le donne vittime di abusi domestici e il dimezzamento (a due) del numero di mogli consentito.

Lo sconforto in Parlamento si unisce a quello di una società da sempre alle prese con una questione delicata ed urgente che investe trasversalmente diversi ambiti di intervento e non solo quello dei diritti umani. Si teme infatti che la crescente insicurezza che sta ora investendo la società e i già limitati (pur se visibili) progressi raggiunti nei recenti anni del post-regime talebano, possano ridursi ulteriormente quando, alla fine del 2014, le truppe militari dell’ISAF (International Security Assistance Force) in supporto al governo afghano, potrebbero lasciare il Paese.

Sull’argomento l’opinione pubblica si divide. Le organizzazioni civili che si battono per la tutela dei diritti umani, contrariamente alle posizioni istituzionali e militari, sarebbero scettici nei confronti dell’allontanamento definitivo degli aiuti internazionali militari e sono pronti a scommettere che molto probabilmente la presenza militare non solo continuerà ad esistere, ma che manterrà anche la stessa strategia politica con il consenso dell’amministrazione Karzai accusata dalla società di fare troppo poco per ottenere un reale progresso nei negoziati di pace con i gruppi talebani ancora forti e presenti in molte aree del Paese, quindi di non curare debitamente alcune priorità essenziali come diritti umani e diritti delle donne.

Vittime di violenza - Tutti ricordano il caso di Malala Yousafzai, la studentessa pakistana, attivista, vittima di un attentato di rivendicazione talebana, gravemente ferita mentre tornava da scuola e salva per miracolo, diventata simbolo di coraggio e di speranza per tutte le donne del mondo che si battono per il diritto universale all’istruzione. Come lei lo scorso febbraio anche un’altra giovane attivista per i diritti delle donne, afgana, è stata aggredita dai talebani e alla fine uccisa. La vicenda, poco trasmessa dai media internazionali, ha suscitato ugualmente scalpore e vergogna: Anisa aveva 16 anni, era volontaria in una clinica per la somministrazione del vaccino antipolio gestita dal Ministero della Sanità pubblica ed è stata uccisa perché si batteva a favore dell’istruzione femminile e per promuovere i vaccini antipolio nella sua regione, sfidando il pregiudizio dei gruppi talebani su questo strumento considerato un “veicolo del virus dell’Aids”.

Molti sono i casi di questo genere che riguardano donne, spesso giovanissime, oltraggiate e vittime di violenza, ree di aver mostrato coraggio e impegno nella dura lotta verso il rispetto universale dei diritti umani. Tuttavia, alle vicende più truci e feroci, fanno eco fortunatamente le storie di ragazze che sono riuscite a salvarsi, come la giovane Manizha, 20 anni, sostenuta lo scorso febbraio 2013, da un progetto editoriale chiamato “Vite Preziose” dell’Osservatorio HAWCA (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) che le ha permesso di sottrarsi, dopo due anni di matrimonio, ai massacri e agli abusi perpetrati dal marito e dalla sua famiglia. Immediata è stata la risposta dei lettori e il sostegno degli sponsor che hanno permesso alla giovane, con i contributi raccolti, di essere curata, supportata psicologicamente e trasferita in una nuova casa d’accoglienza per ragazze che hanno subito traumi simili.

Ripartire si può - Le storie di queste giovani donne afghane costrette a subire violenze e abusi quotidiani di natura psicologica, fisica ed economica, nonché le prevaricazioni ed umiliazioni a cui le donne vanno incontro indifferentemente dall’estrazione sociale e dall’età, sottomesse a determinati costumi tradizionali e tribali al limite della dignità umana, spingono l’opinione pubblica internazionale ad interrogarsi su possibili forme di sostegno e impongono al governo afghano l’adozione di misure di intervento urgenti ed adeguate.

Il dibattito parlamentare sull’approvazione della legge Karzai e il successivo “stop” legislativo sono lo specchio di una società ancora troppo chiusa in se stessa e nelle proprie tradizioni. Le Istituzioni, infatti, non sono ancora riuscite a misurarsi con il pluralismo culturale tipico di una società democratica che guarda al cambiamento come un’opportunità e non come una minaccia alle proprie origini culturali e religiose: molti dei deputati presenti al dibattito hanno citato più volte la legge islamica della “sharia” per contrastare il decreto legge voluto da Karzai, scoraggiando la riconquista di alcuni diritti elementari ottenuti duramente negli anni recenti (come ad es. l’istruzione) e osteggiati durante il regime talebano.

Il divieto della violenza sulle donne in Afghanistan perciò è una questione di emergenza nazionale. Attualmente il Paese è per loro il luogo più pericoloso: il 90% della popolazione femminile afghana ha subito violenza domestica (stupri, matrimoni forzati, ecc.) e presenta un tasso altissimo di suicidi tra le donne (solo nel 2011 i casi sono stati 2.300), spesso legato alla logica del “più abusi = più suicidi”. La maggior parte delle vittime fuggono da casa per evitare la violenza domestica o un matrimonio forzato e sente di non avere scelta.

Una delle missioni di RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan) che lotta per la diminuzione della disparità di genere e che opera sia ambito educativo sia sanitario, è proprio quella di cambiare la diffusa mentalità distorta. Il monito lanciato dal personale locale di RAWA, impegnato nella sensibilizzazione delle donne dei villaggi di tutto il Paese invitando le stesse a ribellarsi alla violenza e alla denuncia per poter porre le basi del cambiamento, è illuminante: “Se ti suicidi non cambierà niente; la tua morte renderà il tuo nemico più forte”. Tuttavia, RAWA ammette che sono ancora molto pochi i casi di fermo o i condannati da un tribunale afghano (la maggior parte dei quali finisce quasi sempre con il rilascio degli imputati dietro compenso di tangenti) e questo non solo per mancanza di coraggio a sporgere denuncia da parte delle vittime.

L’assistenza medica, sociale, psicologica o legale è infatti scarsa e a volte inesistente. I responsabili godono di immunità e copertura, a causa di una cultura che crede prevalentemente nella superiorità dell’uomo sulla donna e non rispetta i diritti sanciti dalla legge. Ci sono poi i casi in cui la legge può poco o nulla, in particolare nei confronti delle donne sposate – quindi legate da vincolo matrimoniale al marito e alla famiglia di lui – per le quali l’ottenimento del divorzio o della libertà potrebbe risolversi – occasionalmente – solo attraverso un patteggiamento di fronte ad un’assemblea di anziani del villaggio. Avere giustizia, perciò, è spesso impossibile. Nelle comunità è diffusa la convinzione che la violenza domestica sia un fatto privato di cui non si debba parlare e su cui non si debba intervenire.

Dal 2006 ActionAid, impegnata nella lotta alle cause della povertà e dell’esclusione sociale, ha avviato un progetto che nasce dalla collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per le Donne (UNIFEM) e co-finanziato dal Ministero degli Affari Esteri Italiano per creare e sviluppare un sistema di supporto legale per le donne afghane vittime di violenza, attraverso la formazione specifica di assistenti legali per consolidare un sistema di denuncia e lotta contro la violenza e la creazione di gruppi di informazione e formazione in diversi villaggi afghani che assistono le donne nel difficile cammino verso l’autodeterminazione.

Le organizzazioni sociali (ONG e ONLUS che operano sul territorio, quindi a stretto contatto con le comunità locali) e l’impegno di tutta la società civile, se adeguatamente supportati dalle Istituzioni nazionali ed internazionali, possono essere la risposta al faticoso, seppur lento, percorso verso il pieno rispetto dei diritti umani affinché mai più sia negata ad una donna la possibilità di un presente e di un futuro sereno, di un’istruzione e di un lavoro che possano contribuire alla sua stabilità e a quella della sua famiglia.

Vincenza Lofino è Dottoressa in Lingue moderne per la Comunicazione Internazionale – indirizzo Economico (Università del Salento)

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