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Dopo l’accordo sul nucleare, i concetti strategici dell’Iran negli equilibri mediorientali

Creato il 24 luglio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Stefano Lupo

Il 14 luglio 2015 si è raggiunto a l’accordo sul nucleare della Repubblica Islamica dell’Iran (si legga il testo completo), dopo la ripresa del round negoziale il 26 giugno scorso. I visi distesi e sorridenti, dopo un negoziato senza precedenti in termini di lunghezza temporale, non devono trarre in inganno: molto deve essere ancora compiuto, sia a Teheran sia a Washington, affinché quanto deciso a Vienna possa avere un valore sostanziale nella ridefinizione dei pesi specifici degli attori in gioco nello scacchiere regionale che coinvolge l’Iran non solo in quel teatro operativo, ma anche e soprattutto in relazione alle possibili ricadute economiche-commerciali della revoca delle sanzioni internazionali.

È certo, tuttavia, che l’intesa rappresenta un passo fondamentale nella politica estera del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e nel percorso di quello iraniano Hassan Rouhani, al di là delle difficoltà che dovranno sostenere a causa delle rispettive “linee dure” – da un lato Repubblicani e Democratici “dissidenti”, dall’altro conservatori, populisti e Guardia della Rivoluzione –, e delle forti opposizioni di Israele e Arabia Saudita, senza dimenticare il Qatar e gli altri Paesi arabi “vicini” a Riyadh.

L’accordo in sintesi:

  • revoca delle sanzioni economiche, commerciali e finanziare all’Iran, a partire dall’applicazione dell’accordo come certificato da un rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (plausibilmente non prima del 2016);
  • trasformazione della centrale di Fordow in un centro di ricerca e dimezzamento della capacità produttiva della centrale di Natanz;
  • riduzione per 15 anni del livello delle operazioni di arricchimento al 3,67% e delle scorte di uranio a 300 Kg (rispetto ai circa 10.000 Kg posseduti ora);
  • riduzione delle centrifughe R-1 da 19.000 a 5.060 e conversione del reattore ad acqua pesante di Arak, perché non possa produrre materiali utili per realizzare ordigni nucleari;
  • possibilità per gli ispettori dell’ONU di accedere ai siti militari iraniani, anche se Teheran può contestare la richiesta di fronte a una commissione dei Ministri degli Esteri dei Paesi interessati;
  • mantenimento per altri cinque anni dell’embargo sugli acquisti di armi da parte di Teheran mentre il divieto di acquisire missili balistici e la relativa tecnologia rimarrà per altri otto anni;
  • reintroduzione delle sanzioni entro 65 giorni se Teheran viola una delle clausole dell’accordo.
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Siti nucleari (clicca per ingrandire)

Con l’applicazione di questi punti, il tempo necessario all’Iran per produrre materiale necessario per realizzare una sola bomba nucleare (la cosiddetta breakout capability) salirà a un anno, rispetto ai due-tre mesi attuali, dando alla comunità internazionale il tempo per impedirlo, eventualmente anche con mezzi militari.

Data per assodata la rilevanza delle difficoltà che dovranno incontrare Obama al Congresso per la ratifica dell’accordo e il Presidente Rouhani a Teheran, preme qui concentrarsi su un altro punto dal peso specifico fondamentale. In base alle previsioni dell’accordo, in quale misura viene concesso all’Iran di operare nel proprio teatro regionale?  

Il punto in oggetto è quello che riguarda il «mantenimento per altri cinque anni dell’embargo sugli acquisti di armi da parte di Teheran mentre il divieto di acquisire missili balistici e la relativa tecnologia rimarrà per altri otto anni». Tale disposizione appare in teoria come estremamente limitante per il campo d’azione “militare” dell’Iran. Sembra allinearsi con tale considerazione il Generale iraniano Mohammad Ali Jafari, a capo dei Sepah, il corpo delle Guardie della Rivoluzione (Pasdaran). Egli, dopo il pieno endorsement all’accordo da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 20 di luglio, si è ripetutamente mostrato ostile all’embargo sulle armi e al divieto di acquisizione di missili balistici, dichiarando tali disposizioni come «una chiara violazione delle misure protettive della sicurezza di Teheran» [1]. L’accusa di Jafari appare non tanto come un giudizio oggettivo sulle reali capacità operative di Teheran, quanto come un avvertimento, se mai ce ne fosse stato bisogno, circa l’ostile vigilanza dei Pasdaran nei confronti delle disposizioni dell’accordo e il loro iter applicativo. 

Pari importanza alla questione dei missili balistici e all’embargo delle armi, per tutt’altra serie di motivazioni, è data dal generale americano Martin Dempsey, a capo dello Joint Chiefs of Staff. Il militare USA ha ricordato recentemente all’Armed Services Committee del Senato come armi e missili rappresentino una questione cardine nell’insieme complesso dell’accordo sul nucleare [2]. Ma è realmente così strettamente dipendente da missili e nuove armi la sicurezza strategica dell’Iran? Si consideri il fatto non trascurabile che Teheran ha una sostanziale autonomia operativa per quanto concerne gli armamenti necessari alla sua tradizionale “proiezione” regionale (Iraq-Siria-Libano), laddove in Iraq opera attraverso la creazione, l’addestramento e la gestione di milizie sciite (ora tra i primi antagonisti dello Stato Islamico), in Siria attraverso una partnership più consolidata e strutturata, mentre in Libano l’azione iraniana poggia sulle capacità di Hezbollah (adeguatamente finanziato).

La strategia cardine delle forze iraniane per preservare la sicurezza nazionale si basa principalmente sul contenimento della possibile minaccia esterna attraverso un’azione di deterrenza (quasi unicamente perseguibile attraverso modalità tipiche dell’asymmetric warfare [3]), in grado di spostare lo scontro il più possibile lontano dai confini iraniani [4]. Sono quindi strettamente necessari i sistemi di missili balistici, o l’importazione di armi tecnologiche dall’estero, per sostenere lo scopo primario della difesa di Teheran? Solo in minima parte e ancor meno se, una volta implementata la ripresa dei rapporti internazionali liberi dalle sanzioni, l’Iran uscisse dall’isolamento regionale.

Dato il campo d’azione e l’importanza che il capo dei Pasdaran riveste nel Paese, a Jafari deve essere venuto spontaneo affrontare il dossier balistico. L’irritazione del Generale, come già introdotto in precedenza, poggia però più sulla necessità di opporsi complessivamente all’accordo – poiché in grado di limare la posizione politico-economica maturata negli anni dalle Guardie della Rivoluzione –, che su una reale preoccupazione per la perdita di “profondità missilistica”.

Israele vede l’accordo di Vienna come l’anticamera dello scontro con Teheran. Per Tel Aviv la proroga dell’embargo su armi e missili non è infatti una garanzia sufficiente. I vertici dell’IDF (Israel Defense Force) sono consapevoli, molto più del governo Netanyahu, che all’Iran basti esercitare la tradizionale pressione tramite Hezbollah, per minacciare il confine nord di Israele.

La variabile più preoccupante per lo Stato ebraico, nel confronto con quello persiano, resta comunque la presenza dell’IS a cavallo tra Siria e Iraq e per due ordini di idee distinte. Da un lato l’azione dello Stato Islamico rende al momento inevitabile la presenza dell’Iran tra Damasco e Baghdad, in chiave contenitiva niente affatto disprezzata a Washington; dall’altro lato l’IS drena il fronte anti-iraniano, rappresentato sia da Israele ma anche dall’Arabia Saudita, troppo preoccupata, nel breve periodo, a contenere la minaccia del Califfato alle sue frontiere [5].

* Stefano Lupo è OPI Research Fellow e Head Osservatorio Iran

Segui @lupo_stefano

[1] A. KARAMI, Revolutionary Guard leader slams US, criticizes deal , in “Al Monitor”, July 20, 2015.

[2] M. SINGH, The Risk in Lifting Sanctions, and Pressure, on Iran’s Weapons Activities, in “The Washington Institute for the Near East Policy”, July 21, 2015.

[3] Asymmetric warfare: scontro bellico tra due o più schieramenti i cui pesi militari, o le strategie e tattiche, differiscono notevolmente (es: esercito regolare vs movimento di guerriglia).

[4] Khizesh-e Moqavamat: impropriamente traducibile come “arco di resistenza”, prevede il primo fronte di lotta all’esterno dell’arco nazionale, implementando proprio l’utilizzo di proxies.

[5] Saudi Arabia Says Thwarts ISIS Attacks, Hundreds Arrested, in “The Huffington Post”, July 18, 2015.

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