Sono le 18.20 del 10 ottobre 1991. Tre banditi, armati e coperti da passamontagna, entrano nella Basilica di sant’Antonio e rubano il Mento del Santo.
Alcuni fedeli e una guardia vengono immobilizzati sotto la minaccia delle armi. I malviventi fuggono poi a bordo di un’auto guidata da un quarto complice. La Reliquia viene ritrovata settantuno giorni dopo, il 20 dicembre 1991, «ufficialmente» a Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino. La verità su autori, mandanti e sul perché di una rapina giudicata da subito anomala, verrà a galla molto tempo dopo. La firma, inattesa, è quella della «mala del Brenta». Autori materiali, Andrea Zammattio, Andrea Batacchi e Stefano Galletto, insieme con Giulio Maniero, il quarto complice.
Mandante, il boss della mala, Felice Maniero. Lo scopo, estorsione: la Reliquia viene usata come oggetto di scambio con l’intenzione di costringere lo Stato a scendere a patti.
Torniamo a quella data. È il tardo pomeriggio di una giornata insolitamente calda per un ottobre non ancora avvolto dai colori dell’autunno. Sono le 18.20. In chiesa ci sono i fedeli, che si attardano dopo la messa delle
cinque del pomeriggio, e alcuni turisti. Una strana quiete avvolge il luogo sacro. All’improvviso, in Basilica fanno irruzione i tre malviventi.
Numerosi quelli lanciati dai frati della Basilica e dal rettore dell’epoca, padre Olindo Baldassa; dal delegato pontificio, monsignor Marcello Costalunga che, proprio in Basilica durante la celebrazione del 21 ottobre 1991 per il tredicesimo anniversario del pontificato di Giovanni Paolo II, parla «della vicinanza del Santo Padre e della sua trepidazione per le sorti della Reliquia»; dal vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo. Per un lungo periodo non si saprà chi ha commissionato la rapina e chi sono stati gli esecutori.
Ci vorranno tre anni prima di arrivare alla verità. Il quotidiano «La Repubblica» dell’11 febbraio 1995 scrive,a pagina 19: «L’hanno scoperto gli uomini della Criminalpol del Veneto che, a conclusione
di una lunga inchiesta coordinata dalle procure di Padova e di Venezia, hanno ricostruito uno dei misteri
più fitti nella storia della malavita locale, quello appunto del clamoroso assalto al “tempio” di Sant’Antonio. Tra le sei persone che, tre anni e quattro mesi dopo il furto, hanno ricevuto l’ordine di custodia c’è anche il boss della Riviera, Felice Maniero». L’ex capo indiscusso della banda criminale, che si sviluppò tra
le province di Padova e di Venezia, confermerà quanto già dichiarato dai suoi sodali in merito all’episodio nella lunga «confessione» resa ai magistrati.
La sua collaborazione con lo Stato inizia il 18 novembre 1994, sei giorni dopo l’ultimo arresto, avvenuto
a Torino. Ma proseguirà per mesi. Svelati il mandante e gli autori, della rapina del Mento del Santo si continuerà comunque a parlare a lungo, più o meno direttamente, come risulta dagli interrogatori, dalle «confessioni» dell’ex boss e dai documenti contenuti nelle centinaia di faldoni di atti processuali riguardanti
Felice Maniero e la mala del Brenta.
COME IN UN FILM
Il primo malvivente, appena entrato nel deambulatorio del Santuario, fa stendere a terra tre turisti romani che si trovano sul lato sinistro, e con la mano destra tiene puntata la pistola in direzione dell’addetto alla distribuzione delle immaginette. Un altro, entrato nella Cappella del Tesoro, sale i gradini e inizia a colpire, con una mazza come quelle abitualmente utilizzate dai muratori nei cantieri edili, la teca centrale. All’interno, nella parte inferiore è custodita la Lingua, in quella superiore, il Mento. Il reliquiario del Mento è tutto incastonato di pietre preziose.Per il bandito è più facile lasciarsi abbagliare dal luccichio delle pietre piuttosto che dal piccolo scrigno, più semplice, contenente la Lingua.
Eppure Maniero, come rivela nell’intervista che ci ha rilasciato in esclusiva, aveva ordinato ai suoi di rubare la Lingua che, come l’ex boss sapeva molto bene, è la Reliquia del Santo di più alto valore devozionale in tutto il mondo. Questa parte del corpo umano è fragilissima, tra le prime a dissolversi subito dopo la morte; nel caso di sant’Antonio, essendosi mantenuta incorrotta a distanza di secoli, «costituisce – come si legge nelle guide per i pellegrini – un miracolo perenne, unico nella storia e carico di significato religioso quale suggello dell’opera di rievangelizzazione della società a opera del Santo».
Il secondo uomo col passamontagna continua nel suo tentativo di rompere il vetro.
Uno, due, tre colpi potenti.
Quanti bastano per far accorrere Jorge Damonte, una delle guardie in servizio all’interno della Basilica. «Era un frastuono forte, cupo, mai sentito – ricorda, vent’anni dopo, Jorge –. Mi trovavo davanti alla sacrestia. Feci appena in tempo a varcare il cancello della Cappella che mi ritrovai con la canna di una pistola puntata alla tempia». È il terzo uomo a prendere in ostaggio la guardia: «Disse solo: “Stai fermo, non muoverti” – ricorda ancora Damonte –.
Quattro parole che rammento ancora in maniera nitida. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere che la pistola era chiara e lucida. Raccontai, in seguito, questo particolare agli inquirenti che mi chiesero se avessi già avuto a che fare con le armi visto che l’avevo descrittanel dettaglio».
Ma Damonte non ha mai avuto dimestichezza con le armi. È sempre stato un intellettuale, convinto difensore di democrazia e uguaglianza. Proprio per questo qualche anno prima era stato costretto a lasciare in fretta e furia il suo Paese, l’Uruguay, per evitare la cattura a causa del suo impegno contro la dittatura. «Mi sembrava tutto così irreale, come se stessi vivendo la scena di un film – racconta –. In queiminuti, sette-otto al massimo, non mi sono reso conto di nulla. La tentazione era di reagire, ma continuavo a ripetermi che non dovevo farlo. Paura? No, quel bandito, che con la destra mi puntava la pistola e con la sinistra mi teneva bloccato, era tranquillo, sicuro di sé, un professionista e non un malvivente maldestro e avventato. Non gli interessava farmi del male. Non era quello il suo scopo. Lui voleva solo rubare la
Reliquia». Sul posto nel frattempo giunge anche fra Claudio Gottardello, all’epoca custode della Basilica. «Ricordo il gran parapiglia. Con altri confratelli corsi verso la Cappella del Tesoro. Tutto avremmo
pensato ma mai, davvero, che si arrivasse a tanto. Fu come un fulmine a ciel sereno – ricorda fra Gottardello
che oggi vive nel convento di San Pietro di Barbozza (Treviso) –. Chi poteva avere interesse a compiere un gesto simile, e perché? Me lo sono chiesto per tanto tempo, senza trovare spiegazioni». La prima telefonata di fra Claudio è al rettore del Santuario antoniano che, quel giorno, si trova fuori sede per un convegno.
Padre Baldassa rientra poche ore dopo. Per tutta la notte resta incollato al telefono, l’unico esistente all’epoca, che si trova nella portineria del convento.
AUTORI E MANDANTI
«Per lungo tempo questo grave atto sacrilego rimase impunito – spiega Francesco Saverio Pavone, il magistrato che, insieme ai colleghi Michele Dalla Costa e Antonio Fojadelli, ha cercato per piùdi un decennio di sgominare la mala del Brenta –. Almeno fino a quando, tra la fine del 1994 e gli inizi del 1995, lo stesso Maniero, catturato dopo dopo la famosa evasione nella notte tra il 13 e il 14 giugno 1994 dalla casa di reclusione di Padova, si deciderà a collaborare con la giustizia. Maniero è una persona estremamente furba, intelligente, carismatica. Non lascia nulla al caso. Egli ha reso un’ampia collaborazione che ha portato allo sfaldamento della banda nota come “Mafia del Brenta”».Pavone è il giudice istruttore che ha il coraggio di chiamare fatti e persone col loro nome. È il primo che muove, nei confronti della mala del Brenta, l’accusa di «associazione a delinquere di stampo mafioso». Un’accusa mai formulata in precedenza, tanto che, proprio nel 1994, prima della lettura della storica sentenza, venne addirittura contestata da alcuni pubblici ministeri che non ne capirono la portata innovativa e, per certi versi, dirompente, non credendo possibile il fenomeno di una mafia al Nord. Ma alla fine la sentenza è inequivocabile: mandante della rapina, Maniero; autori materiali Zammattio, Batacchi, Galletto e Giulio Maniero. Ad eccezione di Batacchi, gli altri imputati ammettono l’addebito e per questo fatto tutti, Maniero incluso, sono riconosciuti colpevoli dei reati di rapina aggravata, porto e detenzione di armi in luogo pubblico e furto dell’autovettura utilizzata per la fuga.
Nicoletta Masetto
Illustrazione: Luca Salvagno
Messaggero di Sant’Antonio