Dossier Renzi/3 - Restyling istituzionale: più che la riforma poté la forma (di Michele Ainis)

Creato il 07 settembre 2014 da Tafanus

Il nuovo Senato, la legge elettorale, il ruolo del capo dello Stato. Sempre pensando più al "cosa" che al "come". Un errore. Bilanciato da un fiore all'occhiello... restyling istituzionale (di Michele Ainis)
RIVOLUZIONE FA RIMA CON COSTITUZIONE - E infatti Matteo Renzi ha cominciato da lì, nel suo progetto di rivoltare l'Italia come un calzino usato. Ci sta riuscendo? Ed è in grado di rispettare i tempi da centometrista che aveva promesso agli italiani? Il governo Renzi 1° ha prestato giuramento il 22 febbraio; la riforma costituzionale ha ottenuto l'assenso del Senato l'8 agosto. Dunque in 168 giorni, meno di 6 mesi. Diciamolo: si può fare di peggio. Anche di meglio, però. Dopotutto, lo Statuto albertino fu scritto in appena un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848. Mentre l'Assemblea costituente ci mise un anno e mezzo, per approvare la Carta del 1947. Siccome fin qui siamo alla prima lettura, siccome ne servono minimo altre tre, siccome l'esecutivo ci ha promesso di celebrare un referendum dopo il timbro finale delle Camere, difficilmente i nostri ri-costituenti saranno più veloci dei costituenti.
D'altronde, se Renzi puntava a guadagnare un posto nel Guinness dei primati, avrebbe dovuto rinunziarvi fin da subito. Quel posto è del generale de Gaulle, nessuno può insidiarlo. E infatti: in quanto tempo avvenne il passaggio dalla quarta alla quinta Repubblica francese? In meno di 90 ore. De Gaulle ricevette l'incarico di formare un nuovo governo il 31 maggio 1958, che per giunta era di sabato. Alle 21.20 del giorno successivo l'Assemblea nazionale gli aveva già conferito la fiducia, e tre quarti d'ora dopo lui riuniva il Consiglio dei ministri, che in altri tre quarti d'ora approvava la proposta di modificare le procedure per la revisione costituzionale. La commissione parlamentare competente ne era investita a propria volta alle 11 di sera di quella stessa domenica, e l'Assemblea nazionale nel suo insieme la votava nella notte fra il 2 e il 3 giugno. Dopo di che il Consiglio della Repubblica, che era già al lavoro su un testo provvisorio, licenziava la nuova Costituzione, il presidente Coty la promulgava immediatamente, e la mattina del 4 giugno il Journal Officiel ne dava pubblicazione.
Ma non è dallo sprint che si giudica questo tipo d'imprese. Si giudica nel merito, e si giudica altresì per il metodo adottato. Giacché ogni Costituzione serve per unire, per affratellare un popolo attorno a un catalogo di valori condivisi. Se diventa l'occasione per esercizi muscolari, se la sua riforma viene imposta a muso duro dalla maggioranza di turno all'opposizione di turno, allora tanto vale farne senza. È questo il peccato mortale commesso dal centrosinistra nel 2001, dal centrodestra nel 2005. Ma Renzi no, non ci è caduto. L'accordo con Berlusconi è il suo fiore all'occhiello, benché gli sia costato scomuniche e anatemi. Poi, certo, sarebbe stato meglio appuntarsi sul petto un altro fiore, o meglio un Grillo; tuttavia per sposarsi bisogna essere in due.
Anche la flessibilità mostrata dal presidente del Consiglio segna un punto a suo favore. Per esempio: nel nuovo Senato era prevista una rappresentanza paritaria delle Regioni e dei Comuni; strada facendo i sindaci sono diventati un quarto del totale. C'erano 21 corazzieri (troppi) nominati dal Quirinale; ora ne restano 5. Sempre il Senato finiva per essere estromesso dalla potestà legislativa, con l'unica eccezione delle leggi costituzionali. Da qui l'obiezione: a che serve abolire il Cnel, organo consultivo mai consultato da nessuno, per rimpiazzarlo con un Senato di superconsulenti? Obiezione accolta, sicché adesso i senatori votano pure le leggi d'autorizzazione alla ratifica dei trattati, la disciplina dei referendum, la legge sull'elezione del medesimo Senato, la legislazione elettorale e l'ordinamento degli enti decentrati, le norme sulla famiglia, quelle sul diritto alla salute.
PERÒ, ATTENZIONE: C'È UN DIAVOLETTO NASCOSTO nei 40 articoli di questo restyling costituzionale. Non per le sue intenzioni manifeste: d'altronde chi mai difenderebbe il bicameralismo paritario o il federalismo sanguinario? Il primo ci ha donato la signoria dei veto players, con esecutivi esposti agli starnuti di Mastella; il secondo ha fatto lievitare la spesa pubblica di 90 miliardi nell'arco d'un decennio, innescando inchieste giudiziarie che negli ultimi tempi hanno travolto 17 Regioni e oltre 300 consiglieri regionali. Sennonché il problema è il "come", non il "cosa"; gli strumenti, non i fini. Specie se gli strumenti indeboliscono le garanzie costituzionali, assottigliandole come un'acciuga.
Vale per il capo dello Stato: respinto l'emendamento Gotor-Casini (che avrebbe allargato la platea dei suoi elettori), diventa preda della coalizione di governo, e perciò diventa il maggiordomo della maggioranza. Vale per i 5 giudici della Consulta nominati dal presidente-maggiordomo. E vale, in ultimo, per il Parlamento, a sua volta maggiordomo del governo: 60 giorni per trasformarne in legge le proposte, e guai a chi sgarra. Tanto più con la legge elettorale che si profila all'orizzonte, con il mix di liste bloccate e partitini strangolati che è il sale dell'Italicum. Insomma: bene la riforma, male la sua forma.
Michele Ainis

(Continua)
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