Le misure per beni artistici e pubblica istruzione ricordano la deregulation del presidente Usa. Un riciclaggio di progetti del centro-destra. Che mette a rischio il nostro patrimonio
LA RESISTIBILE ASCESA DI MATTEO RENZI si regge su due opposte liturgie: da un lato, un nervoso movimentismo presentista fatto di quotidiane promesse e spiritosaggini (coni gelati, ice bucket). Dall'altro, il tenace attaccamento a una rendita di posizione fondata sul mantra di Mrs. Thatcher: "non c'è alternativa". Fra l'una e l'altra liturgia, un abisso: la distanza fra le parole e i fatti. La grande sveltezza del premier, un treno in corsa dove «il traguardo è nulla, il movimento è tutto» (E. Bernstein, 1899), proclama rottamazioni, rivoluzioni, innovazioni. Ma la rendita di posizione ha una regola ferrea: venire a patti coi soliti noti. Dunque rottamare tutti, salvo il Gran Non-Rottamabile Berlusconi eleggendolo, anzi, a consorte di una Costituente a due, al servizio dei diktat della finanziaria J.P. Morgan; spacciare per rivoluzione il riciclaggio di progetti del centro-destra; sbandierare "riforme" che condannano il Paese alla stagnazione.
Principale instrumentum regni è l'effetto-annuncio, dove l'annuncio non solo precede il fatto, ma ne prende il posto. Le leggi si travestono da slide show o si comprimono in slogan, meglio se in inglese. I noiosi provvedimenti d'antan, che avevano la pessima abitudine di entrare nel merito, soppiantati da scattanti tweet: e come si può dare la copertura di bilancio in 140 caratteri? Ogni disegno di legge è preceduto da un pulviscolo di comunicati e anticipazioni: una manna per giornalisti e professori che non studierebbero mai un vero articolato, ma chiosano seriosamente i flash d'agenzia. In questa fuga in avanti non è chiaro quanto sia dovuto alla scarsa familiarità del premier con la macchina dello Stato e quanto, invece, sia calcolato per dirottare la pubblica opinione. In ogni caso, quando dopo infinite doglie fuoriesce da Palazzo Chigi un testo compiuto, ogni energia critica è già logorata dalla discussione preventiva su indiscrezioni e bozze.
Proprio questo è successo ai Beni Culturali: prima un vago schema della riforma, che poi rimbalza da un Consiglio dei Ministri all'altro, fino al trionfale annuncio: approvata il 29 agosto. E il testo? Non c'è, arriverà tra un po', «salvo intese». Formula che, spiega il "Corriere", vuol dire che «c'è accordo di massima nel governo ma la questione verrà definita solo nella stesura vera e propria del testo, con modifiche possibili fino alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale». Ma allora che cosa mai ha approvato il governo? E quali sono i dissidi da risolvere? Renzi, pare, vuole accrescere il ruolo dei privati: impresa disperata, dopo che perfino l'Art Bonus, che dovrebbe generare modesti introiti (2,7 milioni nel 2015), è stato sfigurato dal codicillo che consente donazioni da farsi ai concessionari privati. Una donazione fra privati avrà dunque il beneficio di uno sconto fiscale pubblico.
Intanto il decreto "sblocca-Italia" ricicla la menzogna secondo cui l'edilizia rimette in moto l'economia. Questa "novità", che data dal primo condono edilizio (Craxi 1985), è stata ripetuta da Berlusconi con condoni e sanatorie. Apostolo della cementificazione era allora Maurizio Lupi, che oggi, con altra casacca, rappresenta gli stessi interessi: e infatti il decreto ripropone, aggravato, un ventaglio di norme di deregulation: silenzio-assenso per lavori ferroviari e autorizzazione paesaggistica, mano libera per la costruzione di prefabbricati senza alcun permesso, esautorazione delle soprintendenze che fermino i lavori per scoperte archeologiche: in tal caso il costruttore fa ricorso, e interviene una commissione di "esperti indipendenti", pagati dal costruttore stesso, con esito prevedibile.
Identiche le impronte digitali nella riforma della pubblica amministrazione, che (per esempio) abolisce il Magistrato alle Acque, insigne istituzione veneziana fondata nel 1505 e sopravvissuta alla fine della Serenissima, ai domini francese e austriaco, ai governi italiani, ma non allo scandalo Mose. Ma dov'è la novità? Le stesse competenze sono trasferite al Provveditorato alle Opere Pubbliche (dipendente da Lupi), il numero uno della struttura è lo stesso, e tanto per proteggere la Laguna l'8 agosto il governo ha accolto le richieste degli armatori delle grandi navi, dando il via al devastante ampliamento del Canale di Contorta Sant'Angelo: una decisione «da barbari», commenta il massimo esperto degli equilibri lagunari, Luigi D'Alpaos.
Quanto alla scuola, a parte la farsa di centomila assunzioni rimangiate in un giorno, le dichiarazioni del ministro Giannini fanno trasecolare: la scuola pubblica risorgerà grazie a capitali privati; intanto, per «garantire la libertà di scelta educativa» bisogna archiviare il «pregiudizio ideologico» che privilegia la scuola pubblica su quella privata. Giannini copia impudicamente la sua predecessora Gelmini, secondo cui «la Costituzione dice che la scuola, sia statale sia paritaria, è sempre pubblica». Ma la Costituzione dice il contrario (art. 33): «la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».
In questi ambiti, Renzi è un innovatore o no? Non lo è, perché innovare non è riciclare i progetti del centro-destra e la deregulation reaganiana. Lo è, invece, per uno stile di governo che punta tutto sull'effimero e nulla sul permanente. Metafora dell'Italia di Renzi è Cinecittà: l'attività degli stabilimenti è quasi nulla, ma in compenso c'è una copia conforme, un parco a tema, Cinecittà World. Finzione anziché lavoro, intrattenimento in luogo della produzione. Come rivoluzione non c'è male.
Salvatore Settis - l'Espresso
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