Dov’è finito il buon latte italiano?

Da Cinzia Tosini @cinziatosini

C’è eccome, state tranquilli! E’ solo che la questione qui è complicata, o meglio, come dice Matteo Scibilia, la questione qui è soprattutto politica. Vediamo di capirci qualcosa, noi consumatori intendo.

Ricordo che tempo fa, visitando un’azienda agricola qui in Brianza, fui colpita dalla rabbia con cui mi parlava la titolare. Troppi cavilli burocratici… troppe le difficoltà nella conduzione. Mi disse: “Cinzia, sapessi quante volte ho la tentazione di vendere! E’ diventato tutto così difficile in Italia!”

Continuo a dire che c’è una parola chiave in tutto questo: ‘sburocratizzare’. Ma non solo, qui c’è un’altra parola che complica le cose: ‘quote latte’.

Direi a questo punto di fare un brevissimo ripasso dalla loro introduzione.

  • Le ‘quote latte’ sono state introdotte nel 1984 dalla Comunità Europea per controllare le eccedenze nella produzione e fissare dei tetti massimi annuali ai paesi membri.
  • I tetti massimi dei singoli paesi si riferiscono alle quantità commercializzate. Il superamento di questi limiti genera una penale.
  • Il metodo di assegnazione dei tetti delle quote ha scaturito da subito forte polemiche. Alcuni paesi comunitari ebbero quote superiori al loro fabbisogno, mentre ad altri tra cui l’Italia, venne assegnata una quota pari alla metà del consumo interno. Qualcosa non quadra…
  • Le infrazioni da parte degli allevatori furono inevitabili, con conseguenti condanne della Corte di Giustizia Europea.
  • Successivamente, nel 1994, vennero modificati i tetti di riferimento rapportandoli alle produzioni 1988/89 e 1991/92 dei singoli allevamenti.
  • I tetti però venivano ancora superati nonostante un ulteriore successivo innalzamento.
  • Tra il 1995 e il 2001 si sono così accumulate multe per un totale di 924 milioni di euro, di cui 276 esclusi dalla sanatoria, 486 a carico dello stato e 162 a carico degli allevatori. (fonte Confagricoltura)
  • Nel frattempo, a causa di questa situazione, il numero delle aziende è scesa da 150 mila a 66 mila.

A questo spunto sorge spontanea la domanda: “Ma perché gli allevatori sapendo di andare incontro a sanzioni così pesanti hanno continuato a superare il loro tetto produttivo?

Mi ha risposto il nutrizionista e zootecnico Paolo Barberio.

- Cinzia, gli allevatori se producessero di meno non avrebbero altra scelta che chiudere le proprie aziende. Purtroppo i costi fissi, oltre che a incidere in maniera rilevante, sono aumentati negli anni in maniera vertiginosa.

Paolo, tu sei un olivicoltore, ma segui gli allevatori come zootecnico per l’aspetto nutrizionale degli animali. Cosa ti senti di consigliare ai produttori?

- Di stare uniti. Le aziende vicine tra loro dovrebbero unirsi per utilizzare strumentazioni in comune, o anche per mettere insieme le mandrie. Questo vale per aziende di 60/100 capi in un unico impianto. Purtroppo i costi che incidono nelle attività sono lievitati, come ad esempio quello del gasolio agricolo, che in dieci anni è più che raddoppiato. I tempi purtroppo sono cambiati. Fino a vent’anni fa con trenta vacche ogni allevatore comprava ogni anno tre ettari di terra… adesso per tenerne trenta, devi vendere tre ettari di terra…

Un grazie particolare a Paolo Barberio per avermi aiutato a capire. La questione in realtà è molto più complicata. Autodichiarazioni e calcoli errati, hanno portato a una non-corrispondenza del calcolo dei tetti. Forse sarebbe il caso di riprendere in mano la questione ricalcolando quote più parallele. Forse, molto di più…

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Fonte: Confagricoltura        


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