Titolo: Dove io non sono
Autore: Ilaria D'Amico
Editore: Bompiani
Anno: 2012
L’esordio letterario di Ilaria D’Amico, nelle librerie con “Dove io non sono”, ci mostra un’altra faccia della brava e poliedrica giornalista, volto noto della televisione.
La copertina del romanzo si presenta con l’immagine di una spiaggia sabbiosa, oltre la quale due tinte pastello d’azzurro graduano mare e cielo. In primo piano un’altalena e i pali aggrediti dalla salsedine. Io, che mi accosto ai libri in modo fisico (al punto da rifuggirne, spesso, la lettura in formato e-pub), accarezzo questa immagine con lo sguardo e sono già invaso da mille sensazioni: di cose perdute, di infinito.
La storia è ambientata a Cape May, New Jersey, e ha per protagonista un uomo con le sue inquietudini.
Ripiegando su una professione di insegnante musicale, il maestro ha rimandato per anni ogni cosa: i suoi sogni di celebrità e di realizzazione, la storia con Lara, la propria condizione umana irrisolta … nell’attesa persistente di una lei misteriosa, che finalmente si manifesta e gli dà appuntamento alla stazione di Cape May, nell’occasione dell’inaugurazione della ferrovia turistica.
Nel giorno dell’attesa dell’incontro risolutivo – quello che finalmente gli regalerà la perfezione che per anni ha inseguito – il protagonista ‘innominato’ rivede, in un flash back non necessariamente diacronico, la sua esistenza tormentata e complicata: il sogno della beat generation, accarezzato con una band dalle belle promesse, un tentativo di suicidio sventato dall’amicizia incipiente con Max, il rifugio nell’alcol e negli ansiolitici, una sofferenza infantile emendata dalla nonna Victoria che lo inizia alla musica e al pianoforte con un “Petrof verticale”.
Finale ansiogeno, nel traffico che sa soltanto “frinire di civiltà”, per non mancare l’appuntamento con il sogno di una vita e migrare da “Dove io non sono” a “Dove io ora sono”, cercando di risolvere l’insolubile mistero della vita anche attraverso un gioco infantile come il tris: “Uno … due … tris”. Mentre la conclusione si salda magicamente all’inizio del romanzo.
Così Ilaria maschera il suo finale, al quale il lettore si accosta stordito di nostalgia e con il patema dell’identificazione della donna misteriosa.
La scrittura di Ilaria D’Amico è essenziale e plastica al tempo stesso, oltre che ricca di riferimenti culturali e musicali.
Il clima della decadenza e del naufragio umano è ricreato, in modo animistico, attraverso gli oggetti: lo scricchiolio delle tavole di legno consumato della veranda, i mobili “che sembrano provenire da un deposito giudiziario”, il frigo “un General Electric … in coma dépassé”, l’auto di Max che “parte con un rombo di marmitta sfiatata”, la casa stessa è “una bicocca” in vendita (anzi no!), l’auto-catorcio è una “Chevy Malibu”.
A volte i paragrafi sono sculture: così le bottiglie sul pianoforte compongono uno “skyline”. E le partiture formano una torre, le musicassette una piramide, “la bottiglia di rum (ndr: quella dell’ultima ebbrezza) svetta sul tavolo, come un ridicolo obelisco in onore di Hemingway e Bukowski”.
A Ilaria D’Amico, però non perdono una cosa (in genere non perdono chi, con la sua opera, mi cattura): nelle ultime pagine ha ricreato l’atmosfera di “Cent’anni di solitudine” e ha sorpreso - riplasmando in modo originale l’epilogo de “Il ponte di Waterloo” - con il ricordo di una tragica scena da film in bianco e nero anni quaranta il bambino che è ancora vivo in ...
… Bruno Elpis
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