diciassette, mattina presto, non troppo pieno, comunque ondeggio, aggrappata alle maniglie fra un gruppo di anziani albanesi e di giovani cinesi. il più vecchio di tutti risponde al telefono dicendo “àlo” con l’accento sulla “a” e mi cattura, così, come mio solito, impudentemente lo guardo.
ha degli occhiali incredibilmente spessi, opachi, di quelli occhiali da vecchio che da tanto tempo non vedevo più.
gli stessi occhiali di mio nonno, al quale difficilmente si potevano vedere gli occhi, e del mio prozio, che li aveva identici.
montatura di bachelite marrone, lenti di vetro, il viso da vecchio.
il mio prozio eugenio, conosciuto anche come “Uge” era alto e magro come un bastone. bestemmiava come una locomotiva e fino a novant’anni ha tenuto la vigna, che la vita senza vino che vita è?
viveva a lappato, paesino della campagna fra lucca e pescia e lo si poteva trovare o a casa, o nell’orto o al bar a seconda dell’umore.
la mia nonna, che era la sorella di sua moglie, (la beppina del ciuco di san gennaro) mi diceva che da giovane era un bell’omo.
da vecchio mi pareva un bel vecchio.
insomma, lo zio uge mi regalò un cappotto.
nero, di lana.
bellissimo. che portava quando era giovane. ce l’ho ancora, anche se lo porto assai poco, soprattutto perchè pesa come un gregge di pecore.
mi piace però pensare che è il cappotto del mi’zio Uge da giovane, che mi è venuto in mente stamani pensando agli occhiali del mi’nonno che erano simili ai suoi e che gli occhiali del mi’nonno erano simili a quelli di un vecchio albanese sul diciassette.