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Piccole ombre minacciose invadevano la stanza, mentre lui si affacciava alla finestra mirando un temporale in lontananza che tuonando e fulminando il cielo si avvicinava sopra le teste ancora addormentate. L’ocra e il rosso, mescolati malamente sulle dita, passando sulla guancia pungente ed ispida, diventavano un’ulteriore nube minacciosa. Bevendo un sorso di caffè, mise ad osservare quei quadri impressionisti stampati su quelle tele e sui libri che una volta proiettavano speranze ed illusioni. Quei colori splendenti che sembravano passare davvero oltre le fronde degli alberi, le domeniche e le dame vestite a festa circondate da galantuomini impettiti gli squarciarono un poco il petto. Domani, si ripeteva sempre, forse domani potrò anche io esporre le mie tele. Ma quelle tele tanto agognate rimanevano li, ferme ed immobili come statue di cera, come la brutta copia di quelle originali. Un Madame Tussaud post moderno, una continua imitazione, un falso perenne, copie senza senso.
Un tuono. Un rombo così forte da far tremare i vetri gli fece saltare il cuore in gola. Fu li che decise di prendere la macchina e andare. Non si rese conto del tempo che era passato veloce. Sapeva solo che, sopra la sua testa, le nubi nerissime e gonfie, gli vomitavano sulla testa decine di migliaia di gocce. Pesanti ma leggere.
Oltrepassò la città, e pian piano il cemento lasciò posto alla vegetazione, talora incolta, alta e prepotente sui cigli delle strade. La riga di mezzeria divideva lui dalle altre macchine che sfrecciando veloci cercavano riparo da quella tempesta lasciando scie di acqua, e non notando nemmeno quella piccola casetta diroccata in mezzo a quel campo, il campo che in tanti anni vissuti lì aveva osservato. Alla rotonda, svoltò e proseguì per non sapeva dove. Sapeva solo che stava lasciando la città e, alle spalle, anche le nubi minacciose, che si stavano facendo sempre più piccole e meste, come se fossero state riprese e punite da chissà quale entità divina. Guardò lo specchietto retrovisore, ma erano ancora là, pronte ad allontanarsi e a torturare altre persone in altre città, a far rizzare il pelo di altri gatti, a far abbaiare nervosamente altri cani randagi, e a far svettare altre piante innanzi quella potenza.
Guidava come ubriaco, allucinato, demonizzato. Proseguiva ma non vedeva, come se qualcosa o qualcuno lo spingesse avanti. Non vedeva più altre macchine, sembrava solo ipnotizzato. Davanti a sé, la luce. Il cielo, di colpo, era terso in diversi punti; in altri nuvole leggere riempivano quel turchese con geometriche figure, astratti disegni. Si perse ad osservarne la leggiadria, il colore lieve, come se un pittore impressionista lo avesse appena dipinto, come se quelle scie di nuvole bianche fossero la pittura colata dal pennello. Gli sembrava di essere dentro un quadro, il suo quadro, che da anni e anni aspettava di dipingere. Mentre avanzava si sentiva di nuovo vivo, in pace, aveva trovato ciò che stava cercando. Gli bastava solo avvicinarsi un po’ di più per poter toccare con mano quella tela così perfetta, nitida e ben riuscita. La macchina ormai andava per conto proprio, non esistevano più i comandi, il freno o le marce. Era solo questione di minuti. Grazie a quel rettilineo così perfetto finalmente trovò lo spazio per prendere la rincorsa così tanto agognata. Allungo’ le mani e gli sembrò davvero di toccare il cielo con un dito.
Arrivò finalmente in quel limbo dove Thanatos ed arte si erano dati appuntamento.
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