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Dove tutto brucia, intervista a Mauro Marcialis

Creato il 22 marzo 2011 da Fabry2010

Dove tutto brucia, intervista a Mauro Marcialis

di Marilù Oliva

“Dimensione Italia non è misurabile,
non è ascrivibile a limiti geografici.
Dimensione Italia è una slogatura dell’Occidente,
i parametri di valutazione sono esclusivamente criminali.
La storia ci aveva già fatto a pezzi:
eravamo un’accozzaglia di stati,
tutti orgogliosamente fondati sull’autocompiacimento.
L’unità è stata un’operazione di marketing, un grottesco malinteso.
Ci siamo illusi, trascinando l’inganno per decenni
e fasciandoci con una retorica tricolore che,
nell’incuria, si è completamente annerita.
Dimensione Italia ha poi smerciato la propria presunta potestà
al prodigo parente a un tiro di schioppo oceanico:
gli Stati Uniti d’America.
Ha congedato la sua resistenza e contrabbandato la sua anima nera.
Ha liquidato la propria sovranità
iscrivendosi al registro dell’anagrafe planetaria
con l’acronimo S.r.l. «società a responsabilità limitata»
acquistando quote di cieca partecipazione re-azionaria.
Così, tanto per mercanteggiare…”

Dove tutto brucia di Mauro Marcialis, Piemme, 2011

Partiamo dall’inizio del romanzo. Precisamente dal poemetto “Dimensione Italia” di cui sopra è riportata la prima parte. Quale dimensione italiana hai proposto nel romanzo?

Verosimile, direi. Provo a spiegare così il pezzo (lo faccio anche nella pagina iniziale del romanzo): Dimensione Italia è una suggestione, un’interpretazione, un’intenzione. È il giaciglio storico/criminale sul quale si appoggiano, scomodamente, le vicende di mera finzione, ad altezza 2006, narrate nelle pagine che seguono. Riferimenti a persone, fatti, luoghi e circostanze sono pertanto puramente casuali. I meccanismi banditeschi che caratterizzano la storia, invece, lo sono un po’ meno…

Più avanti il poema prosegue così:
“Ogni tanto puntiamo il ditino e urliamo contro,
c’indigniamo, forse, ma un attimo appena:
giusto il tempo di sciogliere le nostre ambigue colpe,
renderle liquide,
e scaricarle nel cesso di una nuova storia.
La nostra.”
Esiste ancora il sentimento d’indignazione?

Il ragionamento che segue è ovviamente di carattere generale.
La misura della nostra indignazione è spesso racchiusa in un velocissima presa di posizione rispetto ad alcune aberrazioni sociali e si può metaforicamente collocare nel “mi piace” cliccato en passant in un social network. Ci sembra sufficiente per pulirci la coscienza, ché poi c’è il maledetto quotidiano da gestire faticosamente…
L’epilogo del pezzo punta il “ditino” proprio contro questo popolaccio privo di una coscienza civile condivisa e fermamente ancorato a quello che in sociologia viene definito “familismo amorale”, ovvero quel tipo di comportamento rivolto unicamente a soddisfare il bisogno (spesso artefatto) individuale o della famiglia nucleare a scapito dell’interesse comune.
Rabbia e indignazione sono stati i motori della mia narrazione per quattro anni, fino a quando non sono divenuti insostenibili. Per puro istinto difensivo, col tempo li ho sostituiti con la compassione: prendo atto che l’animo umano è “naturalmente” immutabile e che la nostra storia, come diceva Marx, è stata e sarà sempre lotta tra classi sociali.

Seguito potenziale ma disgiunto de “La strada della violenza” (Colorado Noir, 2006), in comune col primo dei tuoi precedenti tre romanzi, “Dove tutto brucia” ripropone forze di polizia e servizi deviati, collusi con alta imprenditoria e potere politico, narrazioni da differenti punti di vista. Come è nata l’idea di questa storia?

“Dove tutto brucia” è un moltiplicatore de “La strada della violenza” nel senso che dinamiche e tematiche sono simili (le collusioni che hai citato e che sfociano in altri plot riguardanti, per esempio, narcotraffico, pedofilia, satanismo, massoneria…) ma si allargano progressivamente a contesti sempre più ampi: provinciali/nazionali/esteri. Corruzione è la parola chiave, intesa sia come fattore umano che sociale, ma il romanzo narra soprattutto le passioni e i deliri dei personaggi, stretti tra ambizioni e debolezze, amicizie tradite e amori impossibili. La scelta di raccontare la storia da differenti punti di vista nasce invece dal mio desiderio di rapportarmi alle varie condizioni emotive dei protagonisti; queste diversità m’impongono anche di adottare e adattare, di volta in volta, inquadrature, strutture e stili.

Il tuo precedente libro, “Spartaco, Il Gladiatore” (Mondadori, 2010) era un romanzo storico incentrato sulle gesta del ribelle trace. Non trovi che, in qualche modo, i tuoi siano sempre romanzi di “ribellione”?

Credo di sì, anche se il senso di “ribellione” rimane comunque una percezione del lettore, a seconda del proprio coinvolgimento, delle proprie idee e della propria etica. Penso che l’aspetto dominante dei miei libri (e questo è ovviamente condizionato dagli argomenti trattati) sia da ricercare in un’inquadratura prettamente “noir”, che tende a mettere sempre in primo piano il disagio, la sofferenza, la disperazione.

Lo scrittore ha dei doveri verso la sua arte e verso il lettore?

Verso il lettore nessuno, perché la propria intenzione (artistica, narrativa…) non dovrebbe subire questo tipo di condizionamento. Il termine “dovere”, di contro, stona con “arte”, poiché l’arte è spesso inconsapevole.

Qual è il momento più forte e il momento più fragile per uno scrittore?

Il momento della scrittura è quello emotivamente più “forte”. A volte sei talmente immerso nella storia che stai creando, che la “vivi” in presa diretta. Molti dei miei personaggi sono devastati e quindi, nel mio caso, è una situazione sfiancante.
Quello più fragile, umanamente, riguarda le aspettativa deluse.

Definisci il lessema scrittore.

Ne ho una visione passionale e delirante, tipo:
scrittore è colui che dedica ogni energia della propria esistenza alla letteratura, alla ricerca di un’estetica che possa rapportare l’“io” al mondo intero.
È troppo sensibile e non si aggrappa a scorciatoie retoriche né si adagia a un dio che ha già rinnegato poiché la sua sensibilità ha preso atto di un male “naturalmente” umano; scrive per esorcizzare il dolore che prova.
È solo poiché fa troppa fatica a divincolarsi nel marasma in cui si è impantanato e non arriva mai puntuale all’appuntamento col quotidiano. Nel frattempo non c’è nessuno, in una società tanto frenetica, ad aspettarlo e aiutarlo.
Quando, nei suoi momenti di leggerezza e nell’intento di soddisfare il suo primordiale bisogno di amore, raggiungerà il gruppo, la sua visione non si concilierà mai con quella delle altre persone che sono troppo, e felicemente, e artificiosamente, “distratte”.
Inizierà a compatire la loro superficialità ma col tempo arriverà a invidiarla e maledirà se stesso: si renderà finalmente conto che quello che aveva considerato un dono era in realtà una condanna.
Coltiverà l’arte senza avere mai la sensazione di vederla sbocciare, sarà ancora in quel pantano a scavare, schivare e scovare, e il suo impegno in tal senso sarà talmente ossessivo che alla fine del viaggio non riuscirà nemmeno a ridurla a semplice aforisma, ma nel frattempo, inconsapevolmente, l’avrà creata davvero.
È un maledetto destinato alla disperazione, ma il fenomeno non è poi così preoccupante: non credo che, nel mondo, ce ne siamo più di cinquanta.

L’ambiente culturale/intellettuale italiano: commenti?

Ci sono delle eccellenze che però, nella nostra condizione videocratica, sono pressoché invisibili.
Tutto ciò che viene gettato in pasto al pubblico è, per l’impresa o il marchio che lo propone, “prodotto” da barattare. Noto, purtroppo, che aziende e “consumatori” vanno spesso d’accordo.

Il tuo rapporto con la critica.

Siamo vicini allo zero.

Progetti?

Dipende dalla “critica”…



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