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Dove vorrei essere

Creato il 28 marzo 2011 da Fabry2010

Dove vorrei essere

Dal punto in cui mi trovo si vedono una decina di pini altissimi e ben curati. Fuori fa freddo. Lo capisci da come il vento passa tra i rami e la gente attraversa il cortile di gran fretta tenendosi i giubbotti allacciati e i cappucci sul collo. È il primo vero giorno d’inverno. L’hanno detto anche i telegiornali. Stamani, all’alba, quando sono sceso con mia madre e mia sorella a prendere la macchina, c’era ghiaccio dappertutto. Mi sono guardato attorno e il ghiaccio era ovunque, sopra ogni autovettura parcheggiata lungo la strada. Era piuttosto inusuale, qui l’inverno non è mai particolarmente rigido. Ma nessuno di noi ha detto niente. Ho svuotato sul parabrezza la bottiglia d’acqua che mi ero portato in caso avessi avuto sete durante la giornata e ho acceso il riscaldamento e avviato i tergicristalli. Ho fatto tutto in silenzio, in automatico. Tutti abbiamo fatto tutto senza dire una parola. Poi siamo partiti nel buio del giorno che ancora doveva arrivare.
Durante il viaggio mia madre sospirava, – sospira sempre, dice che quello che ha dentro nessuno lo può capire – così sospirava, e non riusciva a stare ferma sul sedile posteriore della macchina. Come al solito è stata lei a insistere per andare a sedersi lì. Eravamo: io alla guida, mia sorella di fronte, e mia madre super agitata alle spalle. Per un po’ abbiamo continuato a non dire niente, poi la luce ha cominciato a fare emergere i profili delle montagne in maniera più netta, e allora potevi vedere i campi di lato all’autostrada completamente ricoperti di brina ghiacciata. Era uno spettacolo surreale. Faceva sentire nudi, come animali. Come animali che attraversavano l’alba del mondo.
Finché mia sorella ha detto “erano anni che non rivedevo così tanta brina.”

Guardando giù dalla finestra del quarto piano dell’ospedale, adesso, c’è questo continuo andirivieni di tizi intirizziti dal freddo e dalla fretta. Forse alcuni stanno andando a fare colazione. Il bar dovrebbe essere dalla parte opposta del cortile, me l’ha detto un’infermiera. Ha detto: “da qui non si può vedere perché è nascosto dai pini, ma c’è.” Ha detto che avremmo dovuto andare a farci uno spuntino o a bere qualcosa di caldo. Ma nessuno di noi aveva appetito, così abbiamo risposto “grazie,” e non ci siamo mossi.
Ci siamo seduti sulle poltrone nella sala d’attesa – che sala d’attesa non è, perché è un corridoio che da una parte dà sulle scale e dall’altra dà sull’entrata del reparto – e abbiamo aspettato.
Allora mi è venuto da ripensare alla visita di preparazione del giorno precedente, quando la dottoressa ci ha spiegato che l’operazione sarebbe durata tre, quattro ore, e che avremmo dovuto pazientare. Non avremmo dovuto avere fretta. Soprattutto avremmo dovuto evitare di chiedere informazioni ogni cinque minuti. “So che in casi del genere un minuto sembra sempre un’ora” ha detto, “ma finché l’intervento non è concluso è inutile venire a fare domande.” E così ci siamo ritrovati davanti a un’attesa che sarebbe dovuta sembrare lunga quasi nove giorni.
Ci siamo portati dei libri e delle riviste da leggere, io mi sono portato il computer – in caso avessi voluto scrivere o guardare un film – mia madre si è portata i giornali di alcuni giorni prima. Ma nessuno di noi è riuscito a far altro che osservarsi attorno e aspettare. Aspettare. Aspettare. Aspettare. E dopo esserci osservati attorno e aver aspettato per qualcosa che pareva quasi un paio d’ore, abbiamo ognuno per conto proprio controllato gli orologi e ci siamo accorti che erano passati meno di dieci minuti. Allora abbiamo tirato fuori i libri, le riviste, i giornali, il computer. E abbiamo provato a sprofondare ognuno in un suo mondo.
Mia sorella ha cominciato a leggere a pochi mesi di distanza dal divorzio. Mi ha fatto piacere vederla sempre più spesso con un libro in mano. Anche se non condividiamo gli stessi interessi mi ha fatto sentire – come spiegarlo? – meno solo. Mia madre invece non legge praticamente mai, dice che è troppo occupata, che vorrebbe, ma non può. Ha pile di quotidiani sparse per casa – tutte dei giorni precedenti – e ogni tanto si siede e prova a recuperare il tempo perso. Così la trovi immersa nelle notizie di cinque giorni prima, e non è raro che ti chiami e ti chieda se hai letto l’articolo di tal dei tali su questo o su quell’altro argomento. Intanto il mondo è andato avanti, magari il tizio dell’articolo è finito sotto un treno, o le sue parole sono state smentite dai fatti, o qualcun altro ha scritto un editoriale in risposta. In quell’istante però non importa. In quell’istante conta solo quello che lei ha appena letto. Io non gliel’ho mai confidato, ma questa cosa di consultare i giornali dei giorni precedenti, come se si stesse perennamente cercando di tenere il passo col mondo, ha finito negli anni per affascinarmi. E mi è venuto da pensare che magari si tratti solamente di un trucco, che quello che considero rincorrere continuamente le cose, in realtà, sia prendersi una pausa dalle cose. Come dire che conta quello che si legge, conta il lettore. Che l’età della notizia, in sé, non conta un bel nulla.
E così segretamente, silenziosamente, ho cominciato di tanto in tanto a farlo anch’io. Ho cominciato anch’io a lasciarmi superare dal mondo. E poi ho cominciato ad andare a leggere quello che è successo nel frattempo. Ed ecco l’idea che ho avuto: che sarebbe interessante fondare un quotidiano che riporti notizie non ancora avvenute. Un quotidiano che pubblichi notizie future, notizie che nessuno sa se davvero si verificheranno. Allora così ci ritroveremmo io, mia madre, mio padre e mia sorella. Mia sorella con in mano l’ultimo best seller, mio padre col giornale di oggi, mia madre con quello di ieri, io con quello di domani. Sarebbe una bella scenetta. Sarebbe qualcosa di cui provare a sorridere.
Ma non oggi. Oggi cerco di scrivere e non ci riesco. Mia sorella tiene “Mille splendidi soli” sulle ginocchia e ha gli occhi fissi sul muro, mia madre apre e chiude il quotidiano di tre giorni prima e poi sospira. Lo riapre, lo richiude, lo posa sulla sedia di fianco. Si alza. Si risiede. È un’anima in pena. Lo siamo tutti in famiglia.
Dico: “andiamo a prenderci un caffè.”
E mi accorgo che era quello che ognuno di noi stava aspettando di sentire.

Il vento fuori taglia i pensieri a fette e il cervello si sente in dovere di ricominciare a elaborare parole. Ci mettiamo a parlare tutti, e tutti contemporaneamente. Mia sorella con la sigaretta tra le labbra, mia madre con le mani in movimento, io col collo schiacciato in mezzo alle spalle. Parliamo del fumo, del freddo, del mangiare, del lavoro, di chi farà la notte in ospedale e di quanto durerà l’operazione. Prima di essere portato via, quasi un’ora fa, mio padre ha detto che preferirebbe fossi io a restare. I dottori hanno spiegato che non è necessario che qualcuno faccia la notte, ma siccome non è neppure proibito hanno detto che possiamo utilizzare la poltrona di fianco al letto. “Siamo tutti uomini nella stanza” ha detto mio padre, “non voglio mettere nessuno in imbarazzo.” Così è stato deciso che resterò io. Ovviamente ogni cosa dipenderà da una serie di variabili non prevedibili. La dottoressa ha specificato che talvolta il paziente è costretto a passare la notte intubato, in isolamento. “In questa eventualità nessuno di voi potrà restargli accanto. Altrimenti…” e a quel punto ci ha parlato della poltrona. Erano in due, una dottoressa e un dottore, durante la visita di preparazione all’intervento. Erano entrambi giovani, entrambi dall’espressione determinata. Modello ci pensiamo noi. Modello non dovete preoccuparvi. L’unica cosa che davvero mi ha tranquillizzato, a fine colloquio, è stato sapere che nessuno dei due avrebbe operato mio padre.
Fuori dunque ricominciamo a conversare. Ma ogni frase è una bomba da disinnescare. Il divorzio di mia sorella, le mie scelte di vita, le idee sulla vita e sul matrimonio di mia madre, il futuro come ce lo eravamo immaginati e come si è rivelato essere. Una miccia viene spenta e già ce n’è un’altra in preparazione. Prendo una pasta al riso, mia madre prende una brioche al cioccolato, mia sorella prende un cannolo alla crema. Caffè ristretto per me, lungo per mia madre, macchiato caldo per mia sorella. Siamo differenti, è così difficile da accettare?, mi chiedo. Mi chiedo se è così per tutti. Mi chiedo se è così per tutti quelli che a un certo punto della loro vita si ritrovano seduti in un bar, fuori da un ospedale, nel primo giorno d’inverno.
Allora cambiamo argomento, ci mettiamo a parlare d’altro. In fin dei conti abbiamo la testa altrove, è per questo che le bombe non esplodono.
E mentre discutiamo mi torna in mente qualcosa che ho letto il giorno prima in un romanzo dal titolo “Vedi di non morire.” Ironico che mi sia ritrovato tra le mani un libro del genere proprio in questi giorni.
Insomma un uomo va dal dottore e il dottore gli dice “ho una notizia buona e una cattiva, quale vuole sentire per prima?”
E l’uomo dice “prima la cattiva.”
“Lei ha un tumore terminale e pochi mesi da vivere.”
“O mio dio” dice l’uomo, “e quella buona?”
“Ha anche l’Alzheimer.”
E l’uomo: “bé, poteva andar peggio, potevo avere un tumore terminale.”
È una storia talmente stupida e talmente crudele che quasi mi sento colpevole d’essermela ricordata. Ma al tempo stesso non posso fare a meno di sorridere ripensandoci. Non so perché, ma ci vedo dentro amore per la vita. Immagino che tutto dipenda dalla maniera in cui diciamo quello che diciamo. Immagino che tutto abbia a che vedere con la maniera in cui leggiamo quello che leggiamo. Ecco perché, quando vedo mia sorella guardarmi e le sento domandare “cosa c’è?”, scuoto la testa e rispondo “niente, niente d’importante.” L’orologio sul muro fa le nove. È passata un’ora, due giorni e mezzo tenendo conto di come da queste parti ogni cosa rallenti e insieme non voglia smettere di accelerare. Se fossimo in un racconto di Carver questo sarebbe il momento in cui uno dei personaggi dice non avresti mai creduto di ritrovarti in una situazione del genere eh?

Di ritorno nell’ospedale scopriamo che la ‘sala d’attesa’ intanto si è riempita, ma per qualche strano motivo le nostre poltrone sono rimaste deserte. Riprendiamo ognuno la propria postazione. Io e il mio portatile. Mia sorella e il suo libro. Mia madre e il suo giornale. Così passa il tempo. Finché, risollevando gli occhi dal computer un’infinità di minuti dopo, mi accorgo che mia sorella è in un angolo a parlare al telefonino, e mia madre ha una rivista aperta tra le gambe e sta leggendo. La vedo – mia madre intendo – sollevare di tanto in tanto la testa come a ripercorrere qualcosa nella memoria, come a cercare di fissarsi un’immagine nella testa. È allora che me ne accorgo, che tra le pagine della rivista c’è il Nuovo Testamento. È una versione che anch’io conosco – mi fu regalata da bambino, non so che fine abbia fatto – piccola abbastanza da stare nella tasca dei calzoni, con fogli così sottili da sembrare pergamene. Una rivista aperta e dentro il Nuovo Testamento. La Parola che raggiunge l’anima tormentata e la disseta: eccola, mia madre. Vorrei andarle vicino e abbracciarla, e dirle di non preoccuparsi, dirle che tutto si risolverà. Ma non mi muovo. Continuo a fissarla e intanto mi chiedo a quanta distanza si può essere da una persona che è a un metro di distanza da dove ci troviamo.
E mentre sento questa domanda ripropormisi nella testa in continuazione, e ogni volta di un poco ingigantita, comincia a squillare anche a me il telefonino.
È il mondo esterno che preme. Che bussa alla porta. Che domanda. Zii, cugini, amici, tutti chiamano, a tutti rispondo la stessa cosa. Che ancora non sappiamo nulla, che ci faremo sentire. Che a quest’ora l’operazione dovrebbe essere finita.
Infatti fuori è buio e sulle poltrone siamo rimasti in pochi. Decido di alzarmi e andare a chiedere notizie. Siamo ampiamente oltre i nove giorni preventivati. Nel frattempo mia sorella ha fatto avanti e indietro dal bar con focaccine e bottigliette d’acqua e io ho smesso di rispondere al telefono. Mia madre ha chiuso rivista e Nuovo Testamento e si è messa a guardare il bagliore gelido dei lampioni che tremano come fantasmi accanto ai pini. Cammino nel corridoio, attraverso l’entrata del reparto. E una volta raggiunta la sala medici comincio a bussare con insistenza alla porta.

L’estate del mio undicesimo compleanno – la ricordo ancora perfettamente – mi ruppi il secondo metacarpo della mano destra. All’ospedale mi ingessarono il braccio fino al gomito e mi dissero di tornare a togliermelo dopo un mese. Faceva un caldo micidiale, non desideravo altro che liberarmi dal gesso e godermi il resto delle vacanze. Ma qualcosa dentro il braccio non stava andando come avrebbe dovuto. Ero in piena crescita, le ossa si stavano modificando in continuazione. A una settimana di distanza dall’incidente un dottore amico di famiglia guardò per caso le radiografie e consigliò ai miei genitori di portarmi in un altro ospedale, a un centinaio di chilometri da dove abitavamo, per fare un altro controllo ed eventualmente cambiare l’ingessatura.
Seguimmo il suo consiglio. E dalle nuove radiografie si poté vedere che la frattura si era sensibilmente spostata rispetto alla sua posizione iniziale. Ma la calcificazione non era completa, facevamo ancora in tempo a rimediare. Bisognava togliere il gesso e scomporre e ricomporre la frattura ingessandola con un angolo diverso dal precedente. Caso voleva che proprio quel giorno ci fosse sciopero totale degli anestesisti. Aspettarne la conclusione – ovvero ventiquattr’ore – avrebbe significato fronteggiare una calcificazione più avanzata, col rischio che nel frattempo l’osso si muovesse ulteriormente. Se volevamo evitare un futuro intervento chirurgico dovevamo risolvere la questione quel giorno stesso.
Mi misero su un lettino. Mio padre e un medico che mi tenevano fermo, l’altro che si arrotolava con calma le maniche del camice fino ai gomiti e intanto diceva “sentirai un po’ di dolore.”
Diceva “cerca di andare con la testa da qualche altra parte. Vai con la mente il più lontano possibile da questo posto.”
Io non capivo.
“Dove vorresti essere in questo momento?” mi chiese. “In spiaggia” dissi. “Bene” disse. “Pensa di essere in spiaggia.”
Mi prese la mano tra le mani. Fece pressione coi pollici. Scompose e ricompose la frattura nella carne viva.
Quello che ricordo in maniera più nitida sono le voci che dicevano d’essere forte e rimanere fermo, poi un nido di paura che mi nasceva nell’anima. Lo sguardo di mio padre che si avvicinava come a volermi toccare, ma un istante prima di raggiungermi veniva spazzato via dal dolore. Soprattutto il dolore. Il dolore è ciò che ricordo maggiormente.
La nuova ingessatura si rivelò migliore della precedente, nondimeno a settimane di distanza si rese necessario un intervento chirurgico. Fu una delle estati peggiori della mia vita. Eppure qualcosa mi diede conforto: fu il pensiero che quel giorno, in qualche maniera, dentro quella stanza avessi superato una prova. La sensazione che mi fossi dimostrato un uomo.
È qualcosa di simile a quello che sento anche adesso, mentre tengo la mano di mio padre nel letto del reparto in cui è ricoverato.
Nella stanza siamo in quattro. L’uomo più distante da noi è qui già da diversi giorni, mi è stato detto che è all’ingrasso, che deve mettere su un po’ di chili, deve recuperare le forze, solo così potrà essere operato. Lo scorgo appena nella penombra. È rannicchiato come sul fondo di uno sterminato buco nero, spalle alla stanza e al resto del mondo, a fissare le tapparelle semichiuse delle finestre che danno su un cielo tetro e distintissimo. Non so perché, ma sento che è sveglio.
L’uomo nel letto di mezzo invece dorme. Un’infermiera mi ha confidato che vive in entrata e in uscita dagli ospedali, in una sorta di dialisi continua, senza più vescica, senza più pancreas, senza più reni, senza più parte dell’intestino. Mi domando quali sogni possa sognare un essere umano al quale pezzo dopo pezzo si sta togliendo tutto. Eppure dorme. Dorme di un sonno ostinato e rumoroso, come a voler far sapere a tutti che lui ancora c’è, che ancora è capace di far sentire il suo respiro a chi gli sta accanto.
Mio padre prova a toccarmi un braccio e con un battito di voce mi chiede di dirgli nuovamente quello che mi è stato riferito. Glielo ripeto. So che è esausto e ancora parzialmente sotto anestesia, ma dico “è andato tutto bene, l’operazione è perfettamente riuscita.” Dico “non c’è stata nessuna complicazione. Il tumore non dovrebbe essere dei più brutti. Anzi” dico, “pare sia qualcosa di cui non dobbiamo più di tanto preoccuparci.” Dico “siamo stati fortunati.”
Sono le parole – le esatte parole – pronunciate dal dottore che ha aperto la porta a cui bussavo quasi un’ora fa. La porta si è aperta ed eccolo lì, il più giovane dei due medici coi quali avevo parlato durante la visita di preparazione all’intervento del giorno prima. Mi ha guardato come a dire nessuno vi è venuto ad avvertire? Poi mi ha spiegato che l’operazione si era conclusa già da diverso tempo e che mio padre sarebbe stato riportato nella sua stanza entro pochi minuti. Mi ha detto che non c’era stato bisogno di fare alcuna terapia intensiva, e che a una prima occhiata il tumore non sembrava dei peggiori. Occorreva aspettare l’esame istologico naturalmente, – “solo l’esame istologico ha valore probante” ha detto – ma a suo parere potevamo tirare tutti quanti un sospiro di sollievo. Ho domandato “quando sarà possibile parlare col chirurgo?”
“In serata” mi ha risposto. “La verranno a chiamare e potrà chiedere a lui i dettagli.”
Ripeto ogni frase a mio padre e lui socchiude gli occhi e dice “bene.”
Dice “mi sono tolto un bel pensiero.”
Al momento di lasciare l’ospedale, pochi minuti fa, mia madre e mia sorella hanno usato la medesima espressione. ‘Un bel pensiero’ hanno detto all’unisono.
Le ho guardate abbracciare a turno mio padre, a turno parlargli, a turno stringergli la mano e accarezzarlo. A turno uscire dalla stanza. Si sono incamminate l’una di fianco all’altra verso l’ascensore riportandosi a casa i libri, le riviste, i quotidiani, le bombe da disinnescare.
“Mi raccomando” ha detto mia madre salutandomi. “Mandami un messaggio appena hai parlato col chirurgo.”
Ha detto il signore ha ascoltato le mie preghiere.

Poi l’infermiera viene a chiamarmi e a me pare sia notte inoltrata – ma controllo l’orologio e sono solo le nove e mezza – e l’ospedale è un gigantesco alveare semispento, un grande sarcofago d’ombre e respiri sul fondo del quale vibra la luce solitaria dello studio del chirurgo. E io attraverso corridoi scuri e deserti, seguendo la sua sagoma incerta fin sul margine di quella luce.
E finalmente eccoci l’uno davanti all’altro, io e l’uomo che ha rimosso il pancreas di mio padre.
“Purtroppo ho una brutta notizia per lei” mi dice dopo avermi fatto accomodare.
“Il tipo di tumore rimosso a suo padre è il più comune tra quelli del pancreas. Dico purtroppo perché si tratta anche del più letale. Il nome scientifico è adenocarcinoma duttale. A prima vista fortemente differenziato e infiltrante i tessuti peripancreatici. Il ché significa, in parole spicciole, che anche se è stato rimosso insieme all’organo che lo ospitava, ci sono alte probabilità che si ripresenti in qualche altra parte del corpo.” Si ferma. Mi osserva. “Mi spiace” aggiunge.
E questo dovrebbe essere il mio turno. Questo dovrebbe essere il momento in cui sono io quello che dice qualcosa. Io che mi dispero. Io che protesto per una versione dei fatti che non coincide con quella che mi è stata data in precedenza.
“Morirà?”, mi sento chiedere invece.
“Tutti moriremo” risponde lui.
“Questo lo so” dico.
Ma mentre lo dico capisco anche cosa ha appena cercato di farmi capire.
E in qualche misteriosa maniera gliene sono grato. Perché realizzarlo è il primo passo per affrontare quello che seguirà.
“Statisticamente il novanta percento dei pazienti non supera i due anni di vita dall’intervento” mi dice dopo essersi accertato che la risposta abbia trovato il suo posto e stia facendo il suo dovere. “Ma si tratta comunque di statistiche, con tutte le eccezioni del caso. Suo padre potrebbe far parte del restante dieci percento.”
Annuisco.
“L’esame istologico dovrà chiarire il numero di linfonodi interessati. Poi si dovrà passare alla chemioterapia. Ma di questo si occuperà l’oncologo, non noi.”
“Quando avremo i risultati dell’esame?”, chiedo.
“Una ventina di giorni” dice.
Io non dico nulla.
“Ascolti,” riprende lui. “So che deve essere molto duro per lei, ma deve capire che dal punto di vista chirurgico l’operazione è perfettamente riuscita. Questa è la cosa più importante oggi. Il resto poi si vedrà giorno dopo giorno. Il resto si vede sempre giorno dopo giorno.”
E allora lo osservo meglio. Ha gli occhi gonfi, ha la fronte stempiata, ha il camice aperto sul collo. ‘Quest’uomo è qui da stamattina all’alba’ mi sento realizzare mentre lo guardo. ‘Quest’uomo ha passato la sua giornata a operare l’interno di altri uomini.
So che ha una moglie e dei figli, che qualcuno, da qualche parte, in qualche maniera lo sta aspettando. O almeno questo è ciò che mi è stato riferito. Mi domando di cosa parlano quando riescono a incontrarsi, lui e la sua famiglia. Mi domando chi tra loro prenda il caffè ristretto e chi lo prenda lungo, chi macchiato caldo, chi freddo. Mi chiedo se hanno anche loro un carico di bombe da disinnescare e mi domando di cosa sia fatto. E vedo il sudore rappreso, vedo il desiderio di una doccia dietro gli occhiali, il fastidio al collo, vedo i congressi, le ricerche, gli studi, le conferenze, la voglia di tornare a casa e insieme l’ultimo ostacolo a separarlo dalla conclusione della giornata. Che poi sarei io. Che poi è quello di cui stiamo discutendo.
Mi stringe la mano, mi accompagna alla porta.
“Per qualsiasi cosa” dice “siamo qua.”
Lo dice per farmi capire che non sono solo.
Ma mentre percorro a ritroso il corridoio e sento la luce dello studio spegnersi alle mie spalle e un rumore di chiavi svanire in lontananza, capisco che almeno su questo mi ha mentito.

“Com’è andata?,” mi chiede mio padre con un filo di voce. Sono sorpreso di trovarlo ancora sveglio. Mi accosto, comprimo una risposta nella pausa tra un respiro e l’altro del suo vicino di letto e dico “tutto bene.”
Dico “adesso riposa.”
Dico “dormi, recupera le energie.”
Dico “pensa che presto sarai di nuovo a casa.”
Lui mi prende la mano e socchiude gli occhi e dice “sì.”
Fuori, oltre i pini, qualcuno sta abbassando la saracinesca del bar. Un’ambulanza viene messa in moto. L’uomo di fianco a mio padre ha smesso di russare e quello sul letto d’angolo si è sporto un poco di più sul bordo del suo personale buco nero. Anche se non posso affermarlo con certezza, so che ci sta ascoltando.
“Non preoccuparti” dico, “riposa.”
Mi faccio spazio sulla poltrona, digito sul telefonino “è andato tutto bene. Dormite tranquille. Ci vediamo domani.” E invio il messaggio a mia madre e mia sorella.
In mattinata, quando arriveranno dopo aver attraversato i campi coperti di brina portandosi dietro i giornali, i libri, le riviste e le bombe da disinnescare, ne parleremo. Ma questa notte no. Questa notte svanirà senza che anche loro siano costrette ad affrontarla.
Stringo la mano di mio padre e fisso la penombra.
Pensa di essere in spiaggia mi sento ripetere mentre il tizio di fianco a noi ricomincia a russare.



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