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Non stupisce che Nicolas Winding Refn sia uno tra i registi più corteggiati di Hollywood. Ed infatti il suo film fa sorgere il dubbio che sia una sorta di novello Quentin Tarantino. «Come?», direte voi. Non mi riferisco tanto allo stile, anche perché a Refn sembra mancare la capacità tarantiniana di dare vita a dialoghi tanto spassosi quanto sconclusionati, quanto alla sua maestria nel dare vita ad un film pieno zeppo di citazioni. «Ma è tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis!», esclamerete. Sì, ma non è detto che la trasposizione cinematografica non possa cogliere l’occasione per rifarsi ad alcuni meccanismi che su celluloide hanno già dimostrato di funzionare egregiamente.
Ed è così che in Drive si possono ritrovare le caratteristiche di almeno quattro o cinque film famosissimi e ormai consolidati nella tradizione cinematografica mondiale. Due di questi, poi, sembrerebbero proprio essere la base dell’intera storia. Questi sono Leon (Luc Besson, 1994) e A History of Violence (David Cronenberg, 2005). Del primo ritorna il rapporto “platonico” tra un killer e una donna (ma qui già sposata e con un bambino) con quest’ultima che risveglia nel protagonista il sentimento d’amore. Del secondo invece viene ripreso quasi in toto l’impianto: in un crescendo di violenza abbiamo un personaggio dal passato oscuro che sa però come uccidere e lo fa con chirurgica precisione (ma là Viggo Mortensen era egregio, qua Ryan Gosling è poco credibile). Noi siamo spinti a chiederci: chi è?; come fa ad uccidere con quella maestria?; quale sarà il suo futuro? Come nel film di Cronenberg non ci è dato sapere.
Continuando con il gioco dei rimandi non stupisce poi che la pellicola si apra con una rapina, e qui è inutile elencare la lunga lista di film che principiano in questo modo (da ultimo Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, 2008), e finisca con un incidente che assomiglia a quello dell'inizio di Mulholland Drive (David Lynch, 2001). Come se non bastasse, a livello stilistico la musica e i continui ralenti sono una presenza costante. Ed è così che la mente torna alle Regole dell’attrazione (Roger Avary, 2002). Certo, la scelta è funzionale a rendere epiche anche le scene di collegamento che rischierebbero di essere fiacche, ma in questo modo il regista palesa il suo timore di non riuscire a tenere alta la soglia d’attenzione nello spettatore. Un (mal)celato segno di debolezza che dimostra quanto la storia sia in fondo già vista.
Dopo il Cigno nero di Darren Aronofsky (2010) avanti dunque con un’altra accoppiata film/regista che desidera più compiacere il pubblico in tutto e per tutto che proporre qualcosa di nuovo. In poche parole un ottimo prodotto senza cuore.
Voto: 7 su 10
(Film visionato il 7 ottobre 2011)
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