Quando ce la vediamo sbucare davanti ha da poco finito di piovere.
Lui mi sta ancora raccontando di sua moglie, e di quello che succede a un matrimonio dopo nemmeno due anni di vita. La morte che comincia a entrare dentro le cose, a fari semispenti e motore al minimo, e più scende in profondità più buio si lascia alle spalle.
Io non ho smesso di fissare l’auto dal momento in cui ha imboccato la nostra strada. Lui parla, io guardo. Ma so che anche lui l’ha notata e la sta tenendo d’occhio.
Questa cosa del matrimonio l’ho già sentita talmente tante volte da non aver bisogno di ascoltare per sapere dove andremo a concludere. Andremo a concludere sul sesso. In particolare sul suo. E da lì ci spingeremo fin dentro il cervello. Il cervello di tutti questa volta. Qui ci fermeremo. Ascolteremo le varie opzioni provando a ragionare sul momento in cui ogni cosa ha cominciato ad andare come è andata. E siccome in fondo in fondo non lo sappiamo neppure noi quando ogni cosa ha cominciato ad andare come è andata, resteremo impigliati al pensiero di come farla finire. Far finire questa specie d’ostile indifferenza che da un po’ di tempo in qua è divenuta la nostra vita. Lui dirà che far finire una cosa è più difficile che farla cominciare. Che iniziare non implica il pensiero, ma finire sì. Occorre una quantità smisurata di pensiero per far finire qualcosa. Io resterò in silenzio, resto sempre in silenzio, ma dentro risponderò che non è vero. Che a far finire una cosa non ci vuole altro che volontà e menefreghismo. E noi ne abbiamo in abbondanza di entrambi.
La macchina intanto ha messo la freccia a sinistra e dopo poco ha svoltato. Noi rallentiamo appena, come se stessimo ragionando, ma in realtà stiamo solo costruendo una distanza, come dire, critica. È solo una tecnica. Fanno così anche le aquile. Lo so io e lo sa lui cosa può significare una freccia, a quest’ora, su di una grande strada vuota. Non abbiamo bisogno di dircelo. Per un tacito accordo che ci unisce al resto del tessuto-umanità non parliamo mai di quello che sappiamo per certo. Ecco perché finiamo sempre per rimuginare su questa storia della morte che entra con lentezza nelle cose.
Svolto a sinistra anch’io. Lascio la strada principale e mi immetto in quella in cui un attimo prima abbiamo visto voltare l’auto. È a un centinaio di metri, procede con regolarità. I fanali: due pupille. Due fori rossi piccoli e tremanti.
Questo è il momento in cui cominciamo a lavorare sulle ipotesi. Lo facciamo ognuno per conto proprio, silenziosamente. Nel nido delle menti. Calandoci con calma nel furore cavo della notte.
Escludo i teenager in partenza. Lo sto facendo io e so che lo sta facendo anche lui. Questa guida è troppo attenta. Le traiettorie sono troppo definite. Però un eccesso di prudenza può anche essere sinonimo d’insicurezza. Può significare che si ha paura di qualcosa. E allora bisogna domandarsene la ragione. È come essere a scavare. Ognuno con la sua pala e in silenzio, in un parco buio. Un mucchio di terra che esce, un pezzo d’ipotesi che se ne va. Si continua così finché non si sente lo stoc di qualcosa di solido che è stato appena raggiunto.
“Cosa ne dici?” domanda lui.
Io non dico niente. Non dico mai niente. Non finché non comincio a sentire la vicinanza di quel qualcosa.
“A me pare un’alfa romeo” sta continuando.
Allora intervengo “potrebbe anche essere una opel.”
“Potrebbe” mormora lui.
Come insetti scivoliamo nel diluvio di tenebre che ci circonda. Siamo ragni metodici e silenziosi. I lampioni così radi che risulta difficile anche solo riconoscere il muso della nostra macchina. Fuori fa freddo. Manca la luna. Non c’è mai la luna quando decidiamo di uscire per strada in questa maniera, con questa smania a pulsarci nell’iride. Senza luna è come se niente stia davvero succedendo. Nessuno può riferire ci ripetiamo sempre quello che nessuno ha mai visto. È l’unico indizio che abbiamo deciso di lasciare al resto del mondo.
“Quanti credi che sono?” mi domanda.
Anche questa volta non rispondo. ‘Quanti sono’ per me non è mai importante. Quello che davvero importa è capire ‘cosa’ sono. Il numero è una variabile ininfluente che all’occorrenza può essere ridotta o controllata; il cosa no. Ecco perché non uso mai il plurale, non dico mai ‘dove vanno’ o ‘cosa fanno’ o ‘quanti sono’. C’è un’auto e dentro quell’auto c’è qualcosa. Punto. Dobbiamo valutare se quel ‘qualcosa’ ci interessa o meno. Fine.
Di nuovo la freccia, di nuovo a sinistra.
È arrivata da via Venezia giusto?, mi sento cominciare a ragionare. E si è immessa su viale Europa. Quasi trecento metri e poi ha svoltato di nuovo a sinistra, in via Manfredi. Ora di nuovo a sinistra, e di nuovo in una strada secondaria. Secondaria, principale, secondaria, secondaria. Da sinistra a sinistra, poi nuovamente a sinistra. Non c’è bisogno di consultare un satellite per capirlo. Non per chi ha una mappa topografica che gli è maturata nella testa anno dopo anno, un cancro diffuso fatto di reticoli e ortogonali, di curve, di linee intrecciate e geometrie. Conosciamo queste strade meglio di quanto le nostre madri possano dire di conoscere le nostre facce, questa è la verità. Sappiamo cosa significa sceglierne una invece di un’altra.
Se sta tornando a casa lo sta facendo in maniera confusa. Forse sta vagando. Verrebbe da chiedersi il perché allora, alle tre di notte, dopo un nubifragio, di mercoledì. No, niente confusione. Ha messo tutte le volte la freccia prima di voltare. Gira con regolarità, non c’è caso. Però occorre sbrigarsi. Potrebbe aver notato i nostri fanali alle sue spalle.
“Secondo me sta evitando le vie principali. Sta cercando le secondarie, ma non sembra sapere bene dove andare, sta tornando indietro” dice lui.
Ma io penso dove vuole andare invece lo sa. Quello che non sa è come arrivarci evitando i viali. Il che mi porta a trarre due conclusioni. Che poi è la ragione per cui ci sto ancora appresso. La prima è che qualcosa che potrebbe interessarci, in quell’auto, forse davvero c’è. La seconda è che non lo sapremo mai se non ci decidiamo a fermarla. Il resto poi si vedrà. Il resto si vede sempre dopo.
“Cosa ne pensi?”, domanda lui di nuovo.
E questa volta glielo dico. Glielo dico con un cenno degli occhi quello che penso.
Ci prepariamo. Estraiamo quello che dobbiamo estrarre, ingoiamo quello che dobbiamo ingoiare. Irrigidiamo i nervi, le mascelle. Soprattutto le mascelle. Un dettaglio che non si nota e che non si deve notare, ma che deve sempre esserci, l’irrigidimento. Che poi vuol dire divenire un grumo denso di tensione e forza, certezza che qualsiasi cosa accadrà, da qui a cinque minuti, accadrà per la ragione che siamo noi a determinarla.
Accelero e mi faccio sotto, e una volta vicino, prima di gettare un fascio di luce dentro, mi sembra di sentire il suono della pala che ha appena raggiunto qualcosa di solido. Ecco perché qui tutto si ferma, sul riverbero di questo interminabile, ottenebrante, ennesimo stoc. Intorno non c’è altro che il buio e gli occhi della notte, e la notte certe storie preferisce sempre far finta di non averle mai viste. Nessun testimone penso, nessun racconto.
E scendiamo dall’auto.