CAPITOLO PRIMO
L’Agenzia di Gehenna Geld
Venerdì 9 Novembre 1979
Quell’anno, a Londra, i miei pensieri e le mie energie erano concentrati però in tutt’altra direzione anche se, non sempre la nostra vita prende la strada dove noi vorremmo indirizzarla.
Quel venerdì 9 Novembre 1979, come mi accingo a raccontare, iniziò l’avventura più avvincente e misteriosa che io abbia mai vissuto, tanto più strabiliante quanto inattesa e inusuale, come son d’altronde tutte le cose più belle che ci capitano nella vita.
In compagnia del mio amico Giorgio, mi trovavo a Londra malinconico e squattrinato. Cercavamo perciò un qualsiasi, onesto lavoro per sbarcare, come si suol dire, il lunario, senza essere costretti a rivolgerci alla Social Security Nazionale.
Lo avevo conosciuto a fine agosto di quello stesso anno, in un baretto del centro, durante i primi giorni del mio soggiorno londinese, in uno snack-bar di Leicester Square, poco distante da Piccadilly Circus. Io andavo là perché era l’unico posto che conoscevo dove servissero il caffè all’italiana, dalla macchina Gaggia “Espresso”, direttamente nelle piccole, classiche tazzine da bar. Ed anche se lo servivano senza crema, era pur sempre meglio di quella brodaglia annacquata che gli Inglesi spacciano per caffè.
II bar era ospitato in un ambiente di forma rettangolare. Sulla destra dell’ingresso vi era il bancone con la macchina del caffè, mentre sulla parete sinistra e su quella opposta alla porta di ingresso, correva ad angolo retto un banco di legno, foderato in plastica di color marrone, ed una mensolina foderata nell’identico modo, altrettanto lunga ma più stretta, su cui poggiavano delle zuccheriere e dei posacenere ben distribuiti.
La parete sinistra, per tutta la lunghezza del banco, a partire dalla mensolina e sino al soffitto tinteggiato originariamente di bianco, consisteva di una spessa vetrata trasparente che, dando luminosità al locale, consentiva a chi si trovava seduto sul banco di legno, un’ampia panoramica sull’esterno. Proprio di fronte era ben visibile l’ingresso di un teatro dall’atrio ampio e lussuoso.
Era lì che Giorgio sembrava fissare il suo sguardo, oltre gli occhiali tondi (alla John Lennon, avevo pensato). La sua carnagione olivastra, i capelli castani ed i baffi neri non lo facevano certo apparire un probabile suddito di Sua Maestà la Regina Elisabetta ma lo interrogai, ciò non di meno, in inglese. Anche perchè, in fondo, ero a Londra. Che altro idioma sarebbe stato logico parlare?
Era scoppiato a ridere, alla mia domanda. Non subito, bensì dopo essersi girato a guardarmi, con un’espressione divertita, mentre con le mani replicavo alla richiesta di un fiammifero, fregando, nel contempo, col dito indice destro sul palmo della mano sinistra. Anche lui si era messo in bocca una sigaretta e mi aveva fatto quindi accendere.
Ero rimasto male per la sua strana, incomprensibile risata e stetti lì, come un salame, senza sapere cosa dire. Non sarei riuscito ad incazzarmi, anche volendo. Eppoi, Londra è piena di matti, pensai.
- “ Scusa”-, mi disse poi, in un italiano cadenzato, sentendomi ancora là. “Ma voi italiani siete davvero buffi, parlando l’inglese. Sei di Roma , vero?”-, aggiunse ancora a bruciapelo, sorridendo quindi compiaciuto alla mia mesta risposta positiva.
Il locale, a parte noi due ed una ragazza che sedeva sull’altro lato del banco, era vuoto. Il barista, dietro il bancone, preparava panini e sandwiches, con formaggio e pomodori, lattuga e salumi, e qualcuno con tutti e quattro i companatici assieme,secondo il migliore gusto inglese.
- “Perchè tu, da dove vieni ?” – gli chiesi io in tono seccato per quel riferimento all’accento degli italiani ed in particolare a quello dei Romani, alla cui grande stirpe mi onoravo e mi onoro di appartenere.
-” Non sono italiano”-, mi rispose con voce pacata, “ma ho vissuto parecchi anni in Italia e perciò conosco bene i vostri costumi, ed anche il vostro accento”-, concluse ridendo nuovamente di gusto.
Il suo riso , però, stavolta non mi infastidì. Erano bastate quelle poche parole a fare sbollire la mia rabbia; o forse sentivo soltanto il bisogno di scambiare quattro chiacchiere senza dovermi spremere il cervello per tradurre i miei pensieri.
Riconoscere le nazionalità attraverso le inflessioni nel parlare l’inglese era solo uno dei tanti aspetti bizzarri della personalità di Giorgio, come ebbi modo di scoprire in seguito. Ma quello che tra essi mi colpì maggiormente, determinando il rinsaldarsi nel tempo della nostra amicizia, fu la sua passione, da me condivisa, per le filosofie esoteriche. Sino ad allora io le avevo reputate appannaggio esclusivo del mondo e delle culture orientali.Invece Giorgio, proprio nel periodo in cui ci incontrammo, ne coltivava una (al cui studio poi mi introdusse), che egli attribuiva agli yaqui, un popolo discendente diretto delle antiche popolazioni pre-colombiane che allo stato presente, secondo quanto allora egli mi disse, abitava in un’area imprecisata del Messico settentrionale.
Quell’estate londinese del 1979 era stata eccezionalmente lunga e mite (a Londra, per Ferragosto, di solito, fa già freddo). Questo mi permise di affiancarlo proficuamente nella vendita dei gelati. Li vendevamo ai passanti, affacciati in strada con una macchina refrigeratrice “Carpigiani” che poi, alla sera, sistemavamo all’interno di un negozio di souvenirs, lungo la Oxford Street. Lavorare insieme aveva contribuito a rafforzare la nostra conoscenza e diventammo così buoni amici. Di lui apprezzavo molto la sicurezza che mostrava nelle cose pratiche e spicciole della quotidianità, non sempre e non necessariamente semplici o banali, che potevano andare dal saper cucinare al sapersi destreggiare egregiamente nell’uso della lingua inglese. Questa sua praticità, tuttavia, si coniugava stranamente con una affannosa ricerca interiore che sembrava finalizzata a capire il senso più profondo della nostra vita sulla terra. Che in fondo era ciò che aveva spinto anche me sino a Londra. Queste cose le avevo più che altro intuite dai grandi discorsi che, alternati ai lunghi silenzi, c’erano stati fra noi . Infatti Giorgio era un tipo alquanto riservato, che non amava molto parlare di sé, almeno non in maniera diretta ed esplicita. Né sembrava molto interessato a raccogliere le confidenze altrui. Apparentemente dava quasi l’impressione di avere qualcosa da nascondere o di essere fuggito da qualche situazione o da qualcuno che voleva dimenticare, in una città dove anche una celebrità passerebbe inosservata. Ma dopo averlo conosciuto meglio mi ero reso conto che i suoi silenzi, la sua riservatezza, la sua misantropia erano insieme il frutto di una timidezza e il risultato di un carattere riflessivo e profondo, proiettato verso una ricerca spirituale che, assorbendo gran parte delle sue energie, lo distaccava alquanto dalle cose materiali della vita quotidiana, eccezion fatta per quelle strettamente necessarie alla sopravvivenza. La ricerca di un mondo ideale, attraverso dimensioni ed esperienze slegate dalla normalità e dalla ripetitività del già vissuto, era stato sicuramente il punto di contatto e di saldatura più importante nel nostro rapporto. Per di più in lui, a parte tutto ciò, avevo trovato un appoggio ed un sostegno disinteressati, senza dei quali la mia avventura londinese si sarebbe certamente conclusa molto prima.
Poi l’estate, improvvisamente finì, e dopo la fine dell’estate , lentamente ma inesorabilmente, finirono anche i risparmi messi faticosamente da parte nella stagione dei gelati.
…continua…
disponibile anche in versione inglese al link:
http://poetryandmore-albixforpoetry.blogspot.com/2010/01/essence-of-life.html