«Così come Auschwitz per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio. (…) Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del non so». Così scrive Umberto Veronesi nel suo nuovo libro, “Il mestiere di uomo”, di cui i quotidiani hanno pubblicato alcuni estratti. Ho due risposte da dare al professore. Una di carattere assertivo, l’altra di carattere propositivo.
Cominciamo con quella assertiva.
Il male (compreso quello che colpisce il corpo con le malattie) non può venire direttamente da ciò che è Sommo Bene, cioè da Dio. Il male, insegna la dottrina cristiana, è causato dalla caduta, dal peccato originale. Siamo caduti in questo mondo, cioè siamo caduti dal mondo dell’Essere (per usare il linguaggio dei filosofi) in questo mondo, nel mondo del Divenire, che ha le sue proprie leggi naturali. In questo mondo del Divenire la malattia è un fatto naturale. In caso di malattia qual è il ruolo della Provvidenza? Dobbiamo renderci conto che la Provvidenza, nel suo amore per noi, ci sostiene ogni giorno ma agisce sempre ai fini ultimi della salvezza, della salute eterna, cioè di quello che costituisce il nostro Sommo Bene, sia che alla malattia si soccomba, sia che dalla malattia si guarisca.
La malattia può essere occasione di correzione e una prova nel nostro cammino terreno; la liberazione dalla malattia può essere pegno della liberazione dalla morte; la morte per malattia la fine di una vita che arriva sapientemente al momento giusto (anche nel caso dei bambini), prima che la corruzione arrivi subdolamente all’anima, e questo vale per ogni tipo di morte. Dio, perciò, nella malattia trasforma il male in bene, modulandolo ai fini della nostra salvezza, e legando le mani, per così dire, al Diavolo, che con la corruzione del corpo mira a corrompere anche l’anima. Questo stesso mondo, il mondo del Divenire, è un mondo provvidenziale. E’ stato creato per arrestare la caduta dell’angelo (l’angelo sta all’Essere come l’uomo sta al Divenire) nell’abisso. E’ una rete fatta di tempo e di spazio che Dio ha gettato per salvare i suoi figli e che egli tirerà su alla fine del mondo.
Passiamo a quella propositiva.
Abbiamo detto che in questo nostro mondo del Divenire, che ha le sue proprie leggi naturali, la malattia è un fatto naturale. Si ammalano gli animali, si ammalano le piante. Di fronte a queste sue malattie, cioè a queste sue mutazioni organiche, la natura osserva una suprema, naturale indifferenza. Di fronte alla malattia c’è solo un trasgressore dell’ordine naturale: l’uomo. Certamente anche gli animali soffrono nella malattia, ma la loro è una sofferenza puramente fisica. Solo nell’uomo la sofferenza fisica ha per compagna l’angoscia. L’angoscia è uno stato di sospensione, è incapacità di vivere pienamente il presente, sgravandosi del peso del passato e delle ansie del futuro.
L’angoscia è anche la condizione esistenziale dell’uomo: è un dolore di fondo dal quale l’uomo non può mai liberarsi, e che l’uomo ha cercato d’imbrigliare con l’invenzione del tempo, trovando cioè nella ritmica regolarità dei rapporti fra i movimenti degli astri un parametro atto a misurare quelli dei mutamenti della natura. Il tempo, per così dire, è il lamento di fondo dell’umanità, è la cantilena della sua angoscia. Naturalmente l’angoscia diventa profonda e quasi insostenibile in determinate circostanze, ed in questi casi ha anche una vera e propria estrinsecazione fisica: il peso nel cuore è una vera e propria diminuzione delle funzioni del nostro organismo, un dolore sordo, ma autenticamente fisico. Nella malattia la persona soffre dunque doppiamente: al dolore fisico si somma l’angoscia. Ciò spiega il valore morale e terapeutico della compassione: è ovvio che nessuno può partecipare del dolore fisico dell’altro; ma può riuscire («grazie alla carità», aggiungerebbe il cristiano) a partecipare dell’angoscia dell’altro, e ad alleviarla partendo da una posizione di forza.
Il professor Veronesi si turba, è preso da un sentimento d’angoscia di fronte alle devastazioni della malattia nei bambini, che sono oggetto della sua compassione. Ma da cosa gli deriva questo turbamento se non da una dolorosa accettazione o da un non accettazione del Divenire, e quindi da una partecipazione all’Essere? Se Dio non esistesse e tutto si risolvesse nel Divenire, se fossimo solo figli della Natura, non dovremmo proprio per questo assistere alle sofferenze dei bambini con la suprema indifferenza della Natura, senza amore e senza odio, quand’anche, per assurdo, ce ne prendessimo cura col massimo scrupolo possibile? Sollecitudine che in questo assurdo caso non sarebbe altro che un semplice prodotto della cultura, forma civilizzata dell’istinto materno proprio anche degli animali, ammesso e non concesso che cultura e civiltà si sarebbero mai potute sviluppare se l’uomo non avesse speculato – e quindi costruito – sul mistero della sua sofferenza. La capacità di speculazione dell’uomo, infatti, deriva dalla sua sofferenza esistenziale, dal suo essere dentro e fuori di questo mondo, dall’incapacità di vivere pienamente il presente.
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