In attesa che quella stordita di una Amy Winehouse si decida a tirare fuori finalmente un seguito al capolavoro “Back to black” (2006), Duffy con il seguito dell'ottimo "Rockferry" va in scioltezza a sedersi sul trono del pop retrò ammazzando qualunque tipo di concorrenza con questo nuovo album scritto in collaborazione con lo storico Albert Hammond (padre del chitarrista degli Strokes).
“My boy” inzia pop e leggera, tutto bene ok, ma è con la stupenda “Too hurt to dance” che si inizia a fare davvero sul serio. I ritmi si fanno rallentati ed è questa la Duffy che personalmente preferisco: voce intensa, spezzata e sofferta su una base leggera da locale fumoso dei sobborghi della Swinging London primi anni 60. Sembra di stare dentro a “An Education”, pellicola che non a caso si chiudeva proprio con “Smoke Without Fire” cantata da Duffy sui titoli di coda, oppure in un film di David Lynch prima che avvenga qualcosa di inquietante e orribile.
“Keeping my baby” ha suoni maggiormente disco ’70, ma anche un ritornello splendidamente malinconico e “Well Well Well”, tralasciando l’uso sconsiderato nella solita campagna Tim, è uno dei pezzi più irresistibili degli ultimi mesi, pura popedelia d’altri tempi e che si fottano De Sica e la Belen.
“Lovestruck” travolge con il suo ritmo uptempo e i suoi archi raffinati, mentre “Girl” va in direzione leggera e scanzonata yeah yeah e “Hard for the hearth” è una roba d’altri tempi a cui ci si può solo inchinare che va a chiudere un album breve (come gli lp di una volta) ma intenso (come gli lp di una volta).Essere imparziali? Nel caso di Duffy non se ne parla: che disco, che voce, che classe. Senza fine.(voto 8+)