La deindustrializzazione dell’Italia passa anche dal costo dell’energia e dal sistema di scambio delle emissioni, troppo oneroso per le aziende.
Ancora una volta sistema ambientale e sistema industriale sono in rotta di collisione e questa volta la posta in gioco è molto – troppo – alta. La vicenda Alcoa ha riportato alla luce il problema del costo dell’energia per le imprese italiane, in particolare per le cosidette energivore, tra cui i produttori di alluminio. In Italia utilizzare energia vuol dire spendere cinque volte di più di quello che spende un’impresa in Cina (120 euro il costo del megawatt italiano rispetto ai 23 euro del megawatt cinese). Se invece rimaniamo in Europa, in Germania il megawatt costa il 30 per cento in meno dell’Italia (85, 90 euro al MWh).
Ma dato che l’Italia è il paese degli aiutini di Stato e Alcoa era un’azienda troppo importante per il territorio sardo, dal 2006 al 2009 si è cercato di ovviare con la Cassa conguagli italiana. Nel 2009 però la Commissione europea ha ritenuto sleale questa pratica (40.000 sono le pratiche avviate dalla UE per “aiuti italiani” parzialmente illegali). Oggi l’Alcoa deve rimborsare la bellezza di 300 milioni di euro oltre a dover pagare (come riportato sul sito dell’azienda) tutti i costi imposti dalla normativa europea sugli scambi delle emissioni (come sancito dal Protocollo di Kyoto),
Un conto salato dove in cima alla lista compare la voce costi dei diritti di emissioni della CO2 che in Italia sono molto più alti degli altri paesi europei. Il Protocollo di Kyoto prevede infatti target diversi in base ai paesi definiti sulla base della “loro virtuosità ambientale”. Titolo che all’Italia non è mai stato riconosciuto: in Germania i diritti pro-capite sono di 14,92 tonn/anno contro gli 8,7 tonn/anno pro capite assegnati al Bel Paese. Anche la Francia, grazie alla produzione da energia nucleare, è più virtuosa di noi ed emette meno CO2.
Un sistema che sembra non lasciare scampo e da cui qualche paese ha già cercato di “tirarsi fuori”. Il Regno Unito ha deciso di liberare dal sistema di scambio delle emissioni le piccole imprese e gli ospedali con lo scopo di risollevare l’industria e di risparmiare 80 milioni di sterline.
Con le attuali politiche di Bruxelles le attività industriali sono inevitabilmente destinate a ridursi e, in attesa di una reale economia “carbon neutral” è forse il caso di trovare delle soluzioni partendo dalle “buone pratiche”.
La classe operaia europea nel frattempo andrà in paradiso sotto un bel cielo stellato, senza veleni nell’aria mentre l’Asia sarà ben felice di produrre CO2 per conto nostro accogliendo a braccia aperte tutte le nostre produzioni industriali.