Prima di tutto devo fare una confessione. Sono ore in cui, contrariamente a ogni cosa in cui credo, ai miei princìpi, alle convinzioni a cui aderisco da sempre col pensiero, intimamente, nella parte più profonda di me, sto desiderando la morte di un uomo. Lo dico naturalmente con tutta il disagio che un’ammissione del genere comporta per uno che crede in certe cose, come l’inviolabilità della persona, la non violenza, il dialogo per la soluzione delle controversie fra gli uomini, e così via. Per cadere in una così palese contraddizione di tutte le dottrine a cui abitualmente faccio appello, è evidente che l’uomo in questione debba essere di un genere bestiale, inumano, una belva, un satana, uno a cui non può essere concessa alcuna attenuante, un essere indegno di appartenere alla società degli uomini. È lecito augurarsi la morte di uno così, di un dittatore, del più sanguinario fra i tiranni, di una bestia che schiaccia a morte in un giorno solo un migliaio di persone, dopo aver tenuto il proprio popolo sotto il tallone per quarantuno anni? È lecito sperare che un massacratore, uno che per anni ha assassinato nel deserto, schiavi con le catene, donne incinte, bambini, in nome di accordi internazionali sul controllo dei flussi migratori, tiri le cuoia per liberare il mondo della sua presenza? È una domanda che comporta un grosso interrogativo morale, ma alla quale non mi sottraggo e che rendo pubblica, al di fuori dell’intimità dei miei pensieri, non perché cerchi il conforto degli altri, ma perché mi chiedo se per una volta nella vita, fuori dai dogmi, dai convincimenti, dalle regole di civiltà, ci sia il diritto a fare un’eccezione, se esista uno stato straordinario delle cose tale da giustificare anche un pensiero così terribile, come quello di desiderare la morte di un altro individuo, e nel mio caso di Muʿammar Abū Minyar al-Qadhdhāfī, noto a tutti come il colonnello Gheddafi.