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E LO RESE SPECIALE... - Giuseppe "Bepi" Moro

Creato il 12 ottobre 2011 da Calcisulcalcio

Introduzione
Notiamo con grandissimo piacere che anche nelle testate giornalistiche nazionali iniziano ad affiorare argomenti che ci stanno a cuore, nello specifico "il messaggero.it" tratta in maniera similare alla nostra l'argomento calcio storico, cogliendo in pieno il carattere della rubrica "E lo rese speciale..." riportando la storia di un portiere con una caratteristica indimenticabile, Giuseppe Moro, capace di fare balzi felini di 6 metri da un palo all'altro della porta.
Questo portiere capace di veri e propri miracoli e di arrivare a difendere la porta della nazionale italiana ha però una storia controversa, forse dalla vita non ha ricevuto propriamente quelloche meritava, resta però nella storia come uno dei più grandi portieri mai comparsi nel calcio che conta.
L'articolo è di quelli che ti fanno pensare, riflettere attentamente sul periodo moderno contrapposto al contesto storico dell'epoca. Si legge tutto di un fiato, almeno è successo a me, e ti lascia arricchito al termine della lettura.
Ringraziamo infinitamente "ilmessaggero.it" e riportiamo in versione integrale lo splendido articolo di Roberto Faben, sperando che anche altre testate inseriscano una rubrica simile alla nostra nei quotidiani, il calcio puro e storico ha bisogno di essere ricordato e alimentato, troppe volte le pagine dei giornali sono inzeppate di capricci degli odierni campioni che stanno rovinando insieme al troppo denaro e gli interessi imprenditoriali, il nostro amato calcio.
di Cristian Amadei
Giuseppe Moro detto Bepi, il portiere che neutralizzava i rigori ma non la vita.
“La vita disperata del portiere Moro”, storia di un calciatore che attraversò mille squadre. L'omaggio di Zoff ai funerali
ROMA - Quando la fanfara attaccò a suonare l’inno di Mameli, il Bepi si mise a tremare, quasi avesse la febbre alta. Non gli sembrava vero di essere proprio lui, Moro Giuseppe, nato a Carbonera di Treviso il 16 gennaio 1921, a ricoprire il ruolo di estremo difensore della Nazionale. A Budapest si giocava una partita valida per la Coppa internazionale, nella quale l’Italia doveva affrontare la difficile sfida contro la fortissima Ungheria di Puskàs, uno dei maggiori talenti della storia mondiale del pallone. Quel giorno, il 13 giugno 1949, allo stadio Ferencvàros, il Bepi, ritto sull’attenti mentre l’inno si alzava («Dov’è la vittoria…»), si sentì davvero se stesso e rivide i momenti vibranti della sua esistenza.
A 11 anni aveva già deciso che il suo sogno non era certo quella scuola che di tanto in tanto marinava, quanto quel Plànicka che volava in tuffo, raffigurato sulla copertina del suo quaderno preferito. Sfilò così una moneta d’argento da 10 lire dal salvadanaio della nonna e, di nascosto, andò a comprarsi un pallone, mentre con la lira che sarebbe servita ad acquistare il pane, convinse il custode del campetto da calcio di Carbonera ad aprire i cancelli solo per lui: nella nebbia del mattino, diede giù di testa e impazzì di gioia calciando quella maledetta sfera di cuoio nella porta vuota.
Nel repertorio di marachelle del piccolo Bepi, c’era anche la sottrazione di frutta ed uva ai contadini. Tanto sapeva svignarsela con incredibili salti. Un giorno, per sfuggire alle furie del padre, deciso a dare una sonora lezione a quel discolaccio, saltò giù dalla finestra aperta del secondo piano, e anche il suo vecchio, non trattenendosi, lo seguì in tuffo fuori dall’infisso: zero graffi per il monello, ma babbo all’ospedale con femore rotto. Poi venne il primo ingaggio nel Treviso, ma anche la guerra. Il Bepi, chiamato alle armi, in Sicilia, continuava a zompare e, alla guida di un camion militare, per ripararsi dalle mitragliate delle squadriglie aeree, eseguiva tali balzi fulminei fra i cespugli, che i commilitoni non credevano ai loro occhi.
Ora, a 29 anni, non solo era giunto a giocare nella massima serie, ma addirittura era stato convocato per difendere i pali della Nazionale, facendo concorrenza al portiere titolare, Sentimenti IV, e il suo debutto si stava compiendo contro una delle compagini più blasonate d’Europa. Moro, determinato a fare colpo sugli osservatori, non fece risparmio delle sue doti da cavalletta, parando tutto il parabile. Puskàs riuscì a batterlo solo aiutandosi con una mano, ma l’arbitro annullò la rete, e la partita si chiuse con un pareggio, 1 a 1 (segnature di Carapellese e Deàk), risultato considerato ottimo, con pareri entusiastici dei giornali sportivi italiani del giorno dopo circa la prestazione del novello portiere italiano.
Quella che lo stesso Giuseppe Moro considerava la sua parata più «stupefacente» e «inverosimile», «magia» allo stato puro, perché sortita da un incredibile riflesso primordiale, avvenne il 30 novembre 1949, al Wembley di Londra, in Inghilterra-Italia. Mortensen, il celebre calciatore dei tiri ad effetto da corner, stavolta si trovava all’altezza del dischetto del penalty, e scagliò un missile, angolato, a mezzo metro dal palo, a botta sicura. Il Bepi ebbe un guizzo istantaneo e felino, e agguantò la sfera. La partita finì con la sconfitta degli azzurri per 2 a 0, ma il risultato potrebbe aver avuto una ben peggiore consistenza ai danni dell’Italia, se l’estremo difensore veneto non si fosse prodigato in porta, riuscendo a deviare palloni pericolosissimi anche nel secondo tempo, quando, a causa di un imprevisto negli spogliatoi, era calato ormai il buio sul campo e, non essendoci i riflettori, non si vedeva quasi nulla e gli avversari sembravano ombre. Ma si ricorda anche un suo volo portentoso, di sei metri, da un palo all’altro, in un Italia-Inghilterra del 18 maggio 1952 al Comunale di Firenze, finita 1 a 1, quando riuscì a parare una conclusione di Wright che avrebbe trafitto chiunque, forse anche il grande Ricardo Zamora.
Moro era un abile neutralizzatore di rigori: in carriera ne parò 46 su 62, una percentuale impressionante, il 74 per cento. E chi sa, se in questa statistica, sono compresi anche i rigori che, grazie alle sue tecniche ipnotiche, furono tirati fuori dallo specchio della porta dagli esecutori avversari: come quella volta, a Milano, il 24 aprile 1955, in Milan-Roma (lui allora giocava nella Roma), quando, attraverso una serie di finte, mandò in bambola Liedholm, il quale finì per dare un calcio ad una zolla, spedendo la palla sul fondo, e procurandosi pure una distorsione alla caviglia. In una partita, a tiro del rigorista già partito, con una mano raccolse il cappellino che gli era caduto e con l’altra, parò la sfera, episodio unico nella storia ufficiale del calcio italiano. Per questo Gianni Brera, lo definì «un portiere estrosissimo, capace di prodezze impensabili», «in grado di compiere autentici prodigi».
Per il Bepi, romantico e fatalista, tutto era una questione di «destino». Già, il destino. Il 6 aprile 1947, quando giocava nel Treviso, alla vigilia dell’incontro Treviso-Lucchese, s’incontrò con l’allenatore della Lucchese, che gli promise la somma di 100mila lire dietro assicurazione che, nella stagione successiva, sarebbe passato nei ranghi della squadra toscana. I compagni del Treviso vennero a sapere dell’intesa e il giorno dopo la Lucchese sconfisse i veneti per 2 a 1. Fu così accusato di essersi «venduto la partita», e questo sospetto aleggiò su di lui per tutta la carriera, che comprende circa 270 presenze in serie A e 9 in Nazionale.
Il Bepi non fu ceduto alla Lucchese, ma alla Fiorentina. In Fiorentina-Juventus, del 6 giugno 1948, mentre i viola erano in vantaggio, prese un goal da Boniperti su errore di un difensore, e il direttore sportivo Ugolini, posizionato dietro la porta, gli gridò: «Ecco, questi sarebbero i campioni». Moro si sentì offeso, non ci vide più dalla rabbia, e quando ebbe di nuovo la palla tra le mani, la scagliò incredibilmente nella sua porta, mandando in vantaggio la Juventus, e attirandosi nuovamente pesanti accuse di “combine”.
Poi venne il riscatto, la Nazionale, una meteora che pure ha inciso una scia, l’incarico di essere il portiere del Torino post-Superga al posto dell’indimenticabile Bacigalupo. Ma il Bepi aveva un carattere fragile, ingenuo, condizionabile, probabilmente troppo egocentrico. Continuava a cambiare club (Treviso, Fiorentina, Bari, Torino, Lucchese, Sampdoria, Roma, Verona, dal 1943 al 1956), rincorrendo ingaggi milionari, ma uscendone spesso con le ossa rotte, anche a causa di certe sue debolezze con il poker, e un’inconscia predilezione per gli affari sbagliati. Era sempre combattuto il Bepi, fra contraddizioni laceranti. Cedere alle lusinghe di quelli che gli offrivano un premio per lasciarsi passare un goal, per procurare denaro alla famiglia (era sposato con 3 figli), o fare una vita da cani e, in ogni caso, esporsi alle calunnie di un ambiente ipocrita che ormai l’aveva bollato? Che facesse il puro o si abbandonasse alle pressioni altrui, Moro usciva sempre perdente. Una maledizione.
Un mattino d’autunno del 1965, quando entra nella redazione romana del ”Corriere dello sport ”, è già un completo drop-out, disperato e marginalizzato, avvilito e sofferente: a causa della sua indole un po’ anarchica, del suo spirito libero, della sua tensione etica, il granitico e conformista ambiente del football nazionale lo ha etichettato come un soggetto pericoloso, di cui liberarsi. Dopo aver bussato a tante porte, anche di personaggi molto noti della finanza e delle istituzioni positive, ed essere stato sul punto di farla finita, ha trovato, per il rotto della cuffia un posto un Tunisia, come allenatore, a Ebba Ksour. È solo e dimenticato, e per sbarcare il lunario, allena 5 formazioni di un club che milita in terza categoria. Al giornalista Mario Pennacchia racconta tutta la sua storia, che esce in 10 puntate fra il 16 novembre e il 10 dicembre 1965 (gli articoli sono ora riproposti nel libro La vita disperata del portiere Moro, a cura di Massimo Raffaeli, Isbn, 119 pagine, 14 euro), suscitando reazioni spesso commosse dei lettori, nell’indifferenza generale dei nomi noti del calcio.
Moro si sfoga e racconta di partite scandalosamente truccate, una Calciopoli ante-litteram, i retroscena di un ambiente crudele fatto di perfidie e infamie, sogni di gloria e umiliazioni, vigliaccate e perfidie, miserie.
«Ci sono momenti in cui spero di sbagliarmi. Che tutto il bello, ma anche il brutto della mia esistenza si dissolvano. Ma non mi sveglio mai da questo sogno che è la vita, un sogno di deliri e di incubi». Questo è ciò che ha dentro Giuseppe Moro, a 44 anni, quando tutti i ponti alle sue spalle sono bruciati. Dopo la gestione fallimentare di un bar a Roma e l’esperienza tunisina, finirà prima a fare il giocatore-allenatore in una squadretta a San Crispino, nelle Marche, fra la precarietà e gli stenti, e poi il rappresentante di dolciumi. Pensate. Chi si trovava davanti un uomo triste con qualche scatola di caramelle, mai avrebbe immaginato che quella persona fosse stato l’eroe di Budapest osannato dai giornali e dai radiocronisti, il ragno della porta azzurra a Londra. E invece era proprio lui.
Dino Zoff, quando Moro morì, dimenticato, a Porto Sant’Elpidio, sempre nelle Marche, in una mattina gelida del 27 gennaio 1974, inviò ai funerali la sua maglia della Nazionale («fu un gesto istintivo, da parte mia – scrive Zoff all’incipit del libro – perché nel gennaio del ’74 quella era una maglia imbattuta da anni, e Giuseppe Moro, che l’aveva onorata, era degno di indossarla come nessun altro»). Forse il Bepi, omesso perfino dagli almanacchi del calcio, quando ha compiuto l’ultimo salto, verso un mondo migliore, ha avuto un attimo per dimenticare tutto il male, e rivedersi, con la sua zazzera ribelle sulla fronte, mentre neutralizzava il tiro di Wright contro gli inglesi, salvando così la porta dell’Italia, che in quel momento amava certamente più di chiunque altro.

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