Palermo. Una parola macerata, come il lino, quando i vecchi lo facevano sciogliere nelle pozzanghere dei fiumi, riducendolo in poltiglia. Il nome di una città messa lì sulla carta geografica della Sicilia, per dire tutto e il contrario di tutto. Forse che sta morendo con tutti i corvi neri che vi girano attorno e sopra. Come sulle carogne. Ma le carcasse non sono i palermitani ma quei quattro caporaletti che si dànno arie da generali per fingere di dare lustro a quel luogo che essi stessi hanno ridotto a porcile. Ora non possiamo più neanche dire che Palermo vuole essere laboratorio per la costruzione del futuro. Al contrario, è ormai provato, è un luogo in cui questo è reso impossibile.
Se qualcuno me ne parla, farò cose da turchi, gli toglierò il saluto e lo inserirò nella lista nera dei miei più acerrimi nemici. Così farò con quelli che verranno a dirmi che si sono svolte le primarie per il centrosinistra per la prossima consultazione amministrativa, che non voglio neanche sapere se e quando si terrà. L’appetito per l’impegno politico, se mai l’ho avuto, mi è definitivamente passato. A Palermo ci vuole un podestà, un colonnello, uno che prenda a calci in culo chiunque si azzardi a confondere le idee, a mistificare, a giocare con il buon senso e lo spirito di sopportazione della gente per bene.
Si sono mobilitate trentamila persone per le consultazioni del centrosinistra. Dio solo sa come e perché. Un pugno di mosche rispetto a una grande città, la capitale di un’isola dalla storia antica, dove si sono avvicendati re e vicerè, capipopolo e lazzaroni, Pasquino e Masaniello, pretori e ladri. Città europea fatta da arabi e normanni, angioini e spagnoli, cattedrali e monumenti eccelsi invidiatici da tutto il mondo. Cosa vediamo? Un coacervo di macerie che bruciano, con tanti uomini che ci ballano attorno mentre le campane suonano non si sa se a morto o a gloria. Di qualcuno che si crede vincitore, quando invece è con la testa in un pantano, senza rendersene conto.
Gridano alla vittoria quelli che raccattavano voti a pagamento, imbrattavano la città con le loro facce, senza pudore, tenevano i poveri cristi sotto il controllo della loro arroganza senza potere.
Non è stata una competizione tra pari, tra onesti che aspirano a fare il sindaco o chissà che cos’altro. E’ stata una recita con tanti avversari politici. Con gli intrallazzi di sempre, quando imperava la democrazia cristiana di Ciancimino, quando un pugno di criminali poteva fare il bello e il cattivo tempo. Ma neanche dentro il partito di Lima, Moro e Fanfani c’era questo scontro che abbiamo registrato. E questa vergogna.
Eppure c’è chi canta vittoria. Peggio della vecchia Dc. C’è chi grida alla corruzione e all’intrallazzo, e chi brinda con gli amici come se il suo scontro con Rita Borsellino o la Monastra potesse rappresentare la guerra al nemico. Divisi in tante botteghe elettorali, alla fine, dopo lo scontro, i capicorrente tornavano all’unità. Così Lombardo ha fatto dieci punti in più per il suo Mpa, l’autonomismo di cordata, il sicilianismo del levati tu che mi ci metto io. La Dc era il partito della sintesi di tutti gli scontri possibili. Qui, con il Pd, non ci sarà nessuna sintesi. Le primarie hanno segnato tutte le divaricazioni possibili. A cominciare da quelle con la base elettorale che vuole veramente cambiare e non ne può più della politica ridotta a latrina.
Non ha vinto proprio nessuno dei quattro candidati del centrosinistra. Anche se qualcuno ha cantato vittoria. Non possono esserci vincitori, ammiragli o generali tanto miopi da festeggiare per avere vinto contro i loro stessi soldati. E quello che fa più rabbia è che nel pantano di Palermo, a sostenere l’uno o l’altro candidato sono venuti i caporioni di Roma. Come se Palermo dovesse essere infeudata a qualcuno. Ecco Palermo data in mano a nuovi presunti gabelloti. Che pensano di amministrarla per conto dei loro signori feudali. Non ci resta che piangere.
E meno male che erano solo primarie!