Trasformare l’animaletto sacro agli egizi da vorace mangiatore di costose scatolette di cibo appositamente preparato per loro, in soggetto da padella era qualcosa che ancora nel 2010 pareva inconcepibile. Sono passati appena 4 anni e la crisi che ci attanaglia mostra tutta un’altra realtà: la prefettura di Roma (e anche altre, a quanto sembra), paiono preoccupate per la diminuzione dei gatti dovuta al loro uso per rimpinguare una dieta sempre più povera e anche per la rarefazione dei gabbiani, pure loro oggetto di caccia, come avveniva secoli fa con i piccioni delle piazze che a tutti gli effetti costituivano una riserva alimentare. Solo che la carne del gabbiano può essere tossica e di qui l’allarme per i nuovi e inaspettati usi di cucina, mentre una valanga di trasmissioni culinarie ci fa capire che se non usiamo sale dell’Himalaya o il grano di vattalappesca siamo degli sfigati.
Anche questo fa parte di quella deformazione della realtà, di quell’eden immaginario del profitto e del mercato, con cui i media ci rimbambiscono quotidianamente, ci impediscono di prendere atto della situazione oggettiva, dei suoi impressionanti sviluppi e di reagire ad essa come si dovrebbe. Infatti il dilemma delle prefetture è quella di non poter dire apertamente non mangiate i gabbiani perché potreste intossicarvi: sarebbe uno squarcio su una realtà che non può essere ammessa dall’ottimismo di regime. Ma tanto tra qualche mese, una volta siglato il patto transatlantico avremo i polli al cloro made in Usa e vitelli con più ormoni di un cliclsta sullo Stelvio. Gatti e gabbiani saranno la dieta salute.