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E’ morto Francesco Cardella il “guru” di Saman

Creato il 07 agosto 2011 da Diarioelettorale

Francesco Cardella, 71 anni, di origine trapanese, noto al grande pubblico per i suoi legami con Mauro Rostagno e la comunità Saman di Lenzi in provimcia di Trapani, si è spento a Managua in Nicaragua dove risiedeva, stroncato da un infarto.
Ne ha dato notizia da Trapani, la sua famiglia d’origine.
Cardella, ex giornalista, era a Managua dopo che su di lui si erano addensati sospetti – poi rivelatisi non fondati – in relazione all’uccisione di Mauro Rostagno, avvenuta a Valderice il 26 settembre 1988.

Per approfondire la conoscenza di Francesco Cardella e del suo mondo, si riportano qui due interviste, la prima più recente è uno stralcio di una intervista di Maurizio Macaluso dell’aprile 2011 e pubblicata integralmente su il Corriere Trapanese:

“Francesco Cardella parla, per la prima volta, dall’apertura del processo ai presunti assassini del sociologo Mauro Rostagno ”Non ho mai trafficato ne’ con le armi ne’ con la droga. Non sono stato amico con nessun mafioso. Non ho mai rubato ne’ fatto danno, volontariamente, a qualcuno. Ho settantuno anni, faccio l’ambasciatore di questo paese che mi ospita, ho la madre – novantatrè anni, una fortuna! – due sorelle, una moglie, quattro figli, sette nipoti ed alcuni pronipoti. Ho anche alcuni amici che mi vogliono bene e che non mi hanno mai abbandonato”.

Non ho mai provato stima per Francesco Cardella. Se si svolge la mia professione e ci si è occupati delle vicissitudini di Saman non si può non avere riserve. Personaggio enigmatico ed ambiguo, amico dei potenti, nel passato rispettato e riverito, oggi osteggiato e da molti odiato. Se si vuole capire in quale contesto è maturata la morte di Mauro Rostagno, non si può però non ascoltare l’ex guru di Saman. Il suo nome è risuonato spesso nell’aula giudiziaria in cui si celebra il processo ai presunti assassini. Alcuni investigatori hanno avanzato dubbi e sospetti sulla condotta di Francesco Cardella insinuando il sospetto di un suo possibile coinvolgimento nel delitto. Lo abbiamo rintracciato a Managua, in Nicaragua, in cui da alcuni anni svolge l’attività diplomatica.

Signor Cardella, buongiorno, sta seguendo il processo per la morte di Mauro Rostagno? ”Lo sto seguendo attraverso i giornali e qualche conversazione con amici trapanesi. Per quel che riesco a capire – ma la distanza e la frammentarietà delle informazioni certo non aiuta – mi pare che ancora una volta ci sia, sulla vicenda, una certa confusione e qualche ipocrisia. Naturalmente il processo è ancora agli inizi e c’è da sperare che cominci a prendere forma l’accusa formulata contro i due imputati. Dico questo perché fino ad oggi, a mio parere, ci si è limitati a ripercorrere le varie dicerie e suggestioni che già negli anni Novanta allontanarono gli inquirenti dalla pista mafiosa. Un processo serve ad indicare i colpevoli e, di conseguenza, gli innocenti. E questo deve fare senza lasciare ombra a dubbi e senza incertezze. Rostagno è stato assassinato ventidue anni fa. E’ un tempo lungo, molto lungo, per coloro che lo hanno amato in vita. E’ un tempo insopportabile per chi, come me, è stato sfiorato – e pubblicamente – dal sospetto”.

Il suo nome, in realtà, è stato chiamato in causa diverse volte nel corso delle prime udienze del processo. Si è parlato dell’allontanamento di Mauro Rostagno dal Gabbiano, la palazzina in cui risiedevano i dirigenti di Saman. Perché lei diede quell’ordine? Avete davvero litigato a causa dell’intervista rilasciata da Mauro al mensile King? Francamente, si fa fatica a credere che si possa chiudere un’amicizia come la vostra per una banale intervista. La stessa Elisabetta Roveri ha avanzato dei dubbi. ”L’intervista a King fu spiacevole – come lo era stata una precedente rilasciata al Corriere della Sera – ma non chiuse nessuna amicizia. Del resto lo spostamento dal Gabbiano alle Nuove interruppe forse qualcosa? Mi fa specie che la stessa Elisabetta Roveri – che gestì tutta la vicenda – avanzi, come lei mi dice, dei dubbi. Fu Chicca ad indicare a Mauro la sua nuova abitazione. E fu sempre Chicca a dargli un bacio sulla fronte secondo le mie indicazioni. O quello era, secondo lo stile mafioso, il bacio della morte? Signor Maurizio Macaluso la richiamo fortemente al senso della realtà. Alla realtà che si viveva dentro la comunità Saman nel 1988 dove si assistevano tossicodipendenti e dove il simbolismo, che non era quello mafioso, ma quello spirituale e dunque piramidale, aveva le sue regole. Ma quali altri oscuri problemi immaginate ci fossero tra me e Mauro? Ma avete un qualche elemento reale, uno solo, che vi autorizzi ad insistere sulla famosa pista interna? Ho letto, da qualche parte, che il procuratore che rappresenta la pubblica accusa è noto per una sua teoria che sminuisce la ricerca del movente e teorizza la possibilità di ”moventi concorrenti”. In altre parole: un mafioso è incazzato con Mauro perché questi lo tormenta con i suoi servizi televisivi e decide di assassinarlo. Cardella è arrabbiato con Mauro per l’intervista rilasciata a King e…. E lì che vogliamo arrivare? O forse siamo già lì – seduti in questo spazio di una nuova giustizia – e cerchiamo un aggancio, un lapsus, una parolina?”. Mi creda, non ho tesi precostituite. Solo che di mafia al processo fino ad ora non si è parlato.

”Le credo e comprendo che lei, giustamente, si chiede: in questo processo non si parla di mafia ed invece viene spesso citato il mio nome. Come mai? Non è questa una anomalia grande come una casa che dovrebbe fare riflettere? Ma quando mai si è sentito dire che si fa un processo a due mafiosi accusati di avere ammazzato ventidue anni fa un giornalista divenuto celebre per un suo linguaggio innovatore contro la mafia e la corruzione nella provincia siciliana e non si dice una parola sull’attività del giornalista assassinato? E’ lei che deve riflettere su questa cosa mai vista. E’ lei, se veramente non ha pregiudizi, che deve chiedersi il perché di una grande anomalia e cominciare a darsi risposte”. Non c’erano soltanto le denunce televisive. Un testimone, Sergio Di Cori, sostiene che Mauro Rostagno avrebbe scoperto e filmato un traffico d’armi. La videocassetta sarebbe misteriosamente scomparsa dopo l’omicidio. Lei ha mai visto il filmato? ”Sergio Di Cori mente Sul perché menta ho avuto, nel tempo, interpretazioni differenti. All’inizio, pensai che fosse il solito imbecille attratto dalle luci della ribalta che si ficcava nel pasticcio Rostagno per avere il suo quarto d’ora di celebrità. Nel tempo ho cambiato opinione. C’è qualcosa di oscuro in tutta questa vicenda, qualcosa che comincia pochi minuti dopo la morte di Rostagno. Ho letto, per esempio, che la Roveri non fu interrogata durante le tre ore che trascorse nella stazione dei carabinieri di Napola. Non lo sapevo, Chicca non me ne parlò. Ricordo bene quella notte ed il lungo giro in macchina con la famosa Bentley che facemmo quando uscimmo dalla stazione dei carabinieri. Una pattuglia ci fermò e ci identificò”.

A proposito della Bentley. Diversi testi hanno riferito che lei era l’unico ad utilizzarla e che in sua assenza l’auto restava parcheggiata dentro la comunità. La sera del 26 settembre, quando Mauro Rostagno fu ucciso, lei era a Milano. Quando giunse a Trapani si precipitò alla caserma di Napola a bordo della Bentley. Come ha fatto se l’autovettura di Mauro Rostagno ostruiva l’uscita di Saman? “La Bentley veniva usata tutti i giorni per portare l’immondizia dalla comunità al munnizzaro di Napola. Quanto a quella sera, non saprei dire. Perché non lo chiede alla Roveri?”.

Signor Cardella, ha mai fatto parte dei servizi segreti? ”Io ho fatto molti mestieri nella mia vita ed un giorno, se vuole, ne parleremo. Ma non ho mai lavorato per i servizi segreti”.

La seconda intervista risale al 2003 è ad opera di Claudio Sabelli Fioretti e fu pubblicata sul magazine Sette del Corriere della Sera:

Francesco Cardella molti lo ricordano editore porno, oppure guru arancione, oppure amico di Craxi, oppure sospettato di aver fatto uccidere il suo migliore amico, Mauro Rostagno, oppure organizzatore di falsi corsi di formazione, oppure latitante in Nicaragua dove viveva su un albero e faceva il pittore e il biscazziere. Io ho un ricordo molto vecchio di lui. Nel 1974 venne a trovarmi insieme a sua moglie Raffaella Savinelli, figlia del re delle pipe. Dissi loro di entrare. «Fai entrare anche tuo figlio», dissi. «Non è mio figlio», disse Cardella. «È Bobo». «Fai entrare anche Bobo», insistetti. Si materializzò davanti a me un piccolo scimpanzé, Bobo, vestito di tutto punto, pantaloni e camicia. Andammo a mangiare a Brera, io, Raffaella, Francesco e Bobo. Francesco voleva affidarmi la direzione di Abc, mitico giornale della sinistra radicale, quello delle battaglie del divorzio e dell’aborto. «Quanto guadagni? Ti do il doppio». Roba da telefilm americano. Un milione al mese. Dissi: «Non vorrei cenare con Bobo». Raffaella prese Bobo e se ne andò. Andai ad Abc che portai velocemente alla chiusura. Sono passati trent’anni. Quando ho letto che Francesco era tornato e faceva il pittore (la sua mostra è alla galleria d’Ars di Milano) mi sono precipitato in Sicilia. Raffaella? «Morta tragicamente». Bobo? «Suicida in un fiume africano». Tu? «Eccomi qua». Francesco, hai ammazzato Rostagno? «Piano». Va bene, comincia da quando eri bambino. Ecco l’intervista a Francesco Cardella, interrotta ogni tanto da qualche domanda o simildomanda. Perché Cardella è logorroico.

«Trapani. Padre direttore delle Poste, madre pianista che aveva rinunciato alla carriera per sposarlo. Mio padre era un atleta che aveva il record italiano di salto in lungo. Dovette smettere per andare in guerra. La guerra fu un periodo bellissimo, contornato da donne che si occupavano di me perché gli uomini erano tutti al fronte. La notte cerano le pallottole traccianti, per noi era come vedere i fuochi d’artificio, cerano gli aerei che andavano a bombardare, c’era l’allarme e noi ci ficcavamo sotto i letti. Ci divertivamo tanto. Il mio primo giornale fu Telestar, un giornale di destra, mezzo mafioso. Prima l’università a Roma. Passavo la notte in giro, dolce vita, via Veneto, guadagnai i miei primi soldi quando bruciò l’albergo e la gente si buttava dalle finestre. Ero con un paparazzo, Alexis, fotografammo e vendemmo al Messaggero. Sopravvivevo facendo collaborazioni per Crimen, cronaca nera che parlava solo di delitti, mi davano dei ritagli dei quotidiani locali e io dovevo fingere di essere un inviato, ogni articolo diecimila lire che allora erano soldi. Alla fine andai a lavorare a Playmen, mensile di donne nude inventato da Saro Balsamo. Pagava bene. Ma le riunioni del venerdì sera erano drammatiche per un giovane come me».

Francesco, respira.
«Ero sempre l’ultimo a parlare, il più sfigato perché nessuno produceva idee e tutti mi guardavano speranzosi. Un giorno dissi: “Facciamo un fumetto su Supersex, un extraterrestre superdotato”».

Quello che quando raggiungeva l’orgasmo diceva: «Ifis cen cen?».
«Bravo, ti trovo preparato. Con Supersex guadagnai un sacco di soldi. Poi varie vicissitudini. Tipo il giornale porno per intellettuali. A Genova. Si chiamava Executive. Andai da Pasolini. Lui mi presentò la vecchia madre, mi tenne a colazione. E io gli spiegai l’idea di unire donne nude e articoli colti. Lui mi disse: “Bellissimo ma ho un casino di cose da fare”. Fu molto carino, molto pietoso. Invece di mandarmi a quel paese mi mandò da Enzo Siciliano. Che accettò con entusiasmo. Facemmo il primo numero, bellissimo, con scritti di Siciliano, Moravia, Pasolini. Moravia si incazzò a morte. Siciliano, traditore, voltagabbana, disse che non ne sapeva niente. Fine dell’esperimento erotico-intellettuale».

E poi?
«Jet, per l’editore Peruzzo, un giornale di cultura, che pubblicava Bulgakov e Màrquez e testi della sinistra extraparlamentare. Diventai amico di Rostagno, Sofri, Viale. Rostagno in seguito mi disse: “Meno male che non abbiamo vinto. Te lo immagini uno Stato con Sofri presidente del Consiglio?”. Rostagno aveva ragione. Te l’immagini ministro degli Interni Giorgio Pietrostefani, uomo oscuro e profondamente illiberale? E poi Rodeo Far West, una sorta di spettacolo Bernard Cornfeld dietro il quale c’era l’inventore dei fondi comuni d’investimento, un miliardario che aveva fatto società col suo barbiere e il suo violinista personale. Finì in un mare di debiti. Incontrai Antonio Cafieri, tipografo comunista. Facemmo Ora, il quotidiano che non si legge ma si divora. Dopo due mesi, debiti come piovesse. Bisognava rimediare. Con i giornaletti porno, Os, Ov, facemmo un sacco di soldi. A questo punto arrivò sul mercato Abc: 600 milioni. Noi andammo dal nostro distributore, Parrini, e gli chiedemmo 250 milioni. Con i quali demmo la caparra. Due settimane dopo gli dicemmo: “Ti possiamo portare anche Cronaca vera. Ci servono altri 400 milioni”. Parrini ci diede i 400 milioni. Pagammo i 350 che rimanevano e ci rimasero anche i soldi per cominciare a gestire Abc».

Una truffa.
«Certo. Ma i porno vendevano. Lui abbozzò e fu contento».

Come sei entrato nel giro dei socialisti?
«Mi portò Colucci, un deputato socialista. Io dissi a Bettino: “Ho Abc. Trovami un direttore importante”. E lui mi trovò Ruggero Orlando. Mettemmo un televisorino in tutte le edicole, “Buon giorno, vi parla Ruggero Orlando”. Andò bene ma aveva una moglie rompipalle che stava sempre in redazione e un giorno tirò un posacenere in testa al redattore capo. Ruggero Orlando si dimise. Io volevo che Abc entrasse nel mercato di Panorama e dell’Espresso. E chiamai te».

Tralascia. Conflitto di interessi.
«Tu eri troppo moralista. lo prendevo i soldi dalla Montedison e tu attaccavi Cefis. Il giornale perdeva 50 milioni alla settimana».

Tu giravi in Rolls.
«Chiuso Abc, per un anno incassai tantissimo. 50 milioni alla settimana. Poi un giorno me ne andai. Era un brutto periodo. Mia moglie mi aveva lasciato e se ne era andata con Bobo in Africa. In Italia c’erano ammazzamenti e terrorismo. Vedevo Rostagno, frequentavo Macondo, avevo comprato un palazzo nel centro di Milano, stavo con una ragazza comunista di Soccorso Rosso. Spendevo soldi, vivevo bene. Però mi chiedevo: che faccio della mia vita? Me ne andai in India dal Bagwan Rajneesh. Poi venne Rostagno. Per tre anni, dal ’78 all’81, sono stato arancione in India. Scaricavo barbabietole, lavavo i piatti, tagliavo il pane. Tagliare il pane era una cosa sufi, importante, ogni fetta doveva essere di 6 mm. Veniva la gente a vedere come tagliavo bene il pane. Poi un giorno il Maestro se ne andò in America. Io e Mauro tornammo in Italia, e ci dicemmo: “Apriamo un ombrello per tutti gli arancioni che non sanno dove andare. Ne arrivarono centinaia. Vivevamo in una mia grande villa in Sicilia, piscina, orti, alberi, si viveva insieme, si mangiava insieme, si dormiva insieme e poi si facevano tecniche di liberazione del corpo. La meditazione dinamica, immagino che tu la conosca».

Insomma.
«Si fa all’alba: iperventilazione del corpo, espressione della rabbia accumulata, salto lanciando le braccia in alto, e, ricadendo, grosso respiro per abbassare il diaframma. Quando il diaframma è basso è calma dell’anima, lo sai, no?».

Insomma.
«Cominciaî a fare il guru. Predicavo. Poi nacque l’idea di occuparsi dei tossicodipendenti».

Il tuo rapporto con i soldi?
«Da bambino, quattro anni, scoprii che qualcuno vendeva pezzo a pezzo un aereo caduto durante la guerra a un omino che passava con un carretto. Andai anch’io a smontare l’aereo ma gli altri mi cacciarono. Allora mi incazzai. Andai dal tipo del carretto e gli vendetti tutto l’aereo per mille lire».

Morale?
«Morale, io non sono mai stato né ricco né povero. Ma quando ho voluto avere soldi li ho avuti. Rajneesh diceva: “Essere ricchi è meglio che essere poveri”».

Mica male.
«Poi continuava: “Ma non sbattetevi troppo per la ricchezza. Può rubarvi la vita”. Ricordo Bettino che mi prendeva in giro. “Ma come? Io sto cambiando il Paese e tu ti occupi di trenta sfigati?”. Ma io sapevo che dovevo fare la Comunità. E la Comunità, quando hanno ammazzato Rostagno, ha cominciato a produrre un sacco di soldi. Fu un’isteria collettiva. Rostagno diventò un’icona. Io, di riflesso, venni illuminato dalla sua luce. Le donazioni private e le contribuzioni pubbliche cominciarono a piovere. Ci concedevano interi palazzi. Prima non mi filava nessuno. Dopo mi dettero l’Ambrogino d’oro».

Vi contestarono la bella vita, i due yacht, il Povero vecchio e l’Hallo Beta?
«Ci andavo con i tossicodipendenti. Perché non ci andavano loro, brutti figli di puttana, che se vedevano un tossico da lontano vomitavano? Tutto questo finì quando mi arrestarono per i corsi di formazione».

Inventati.
«Ma stiamo parlando di tossici, vi rendete conto? Nelle comunità c’era gente che curava gli orti. Allora ci inventavamo un progetto che diceva: “Il pomodoro stupendo, corso di formazione per imparare a coltivare i pomodori”. Dopo sette anni mi contestarono che la documentazione non era corretta. Una vergogna. Ho dovuto patteggiare per uscire di galera. Poi è partita l’indagine sul peculato. E poi mi hanno appioppato l’omicidio di Mauro, il mio più caro amico».

Tu hai ammazzato Rostagno?
«Io non sono uno che ammazza gli amici».

Chi ha ammazzato Rostagno?
«L’ho detto subito: la mafia. Rostagno cercava la morte eroica, aveva avuto gli avvertimenti. Anche altri ex di Lotta Continua cercavano la morte eroica. Come Sofri».

Sofri cercava la morte eroica?
«L’ho incontrato a Sarajevo. Faceva interposizione dove sparavano i cecchini. Gli dissi: “Stai cercando di farti ammazzare”».

Che cosa diceva Bettino del processo Calabresi, dell’accusa a quelli di Lotta Continua?
«Diceva: “Sono amici di Martelli”. Diceva anche: “Calabresi era un socialista”».

Perché sei scappato?
«Che dovevo fare? Volevano arrestarmi di nuovo. Guardami: sono in Italia. Libero. Hanno archiviato. Sono innocente. Perché dovevo fare della galera ingiusta? Quando il mio avvocato, Grazia Volo, mi invitò a presentarmi, io dissi che l’avrei fatto. E lei mi disse: “Grazie, grazie”. Erano anni strani in Italia, anni di collaborazione tra avvocati e Procure. A quel punto capii che era meglio andarmene. Avevo 10 mila dollari, e me ne andai in Nicaragua».

È poco credibile che non avessi una lira.
«Non pensavo che sarei dovuto andar via. Avevo intestato tutto alla Comunità».

Vivevi alla grande.
«Facevo una buona vita. Ma quando è finita non ne ho sofferto. Niente aereo privato? Pazienza».

A proposito di aereo.
«Il fantastico aereo con il quale spupazzavo Craxi aiutandolo a eludere le difficoltà dell’esilio».

Più esattamente: latitanza.
«È vero che Craxi ha viaggiato su questo aereo. Ma prima dell’esilio, quando era deputato».

Sei andato a trovarlo ad Hammamet durante la latitanza?
«Mia madre ha 85 anni. Ci davamo appuntamento a casa di Craxi, in Tunisia».
Eravamo rimasti in Nicaragua. «Mi sono messo a dipingere. Andavo a pescare, facevo il bagno, elaboravo il mio lutto».

Ti sei costruito una casa su un albero.
«Avevo un terreno con un bellissimo albero. Ho chiamato due o tre amici e abbiamo fatto la casa sopra l’albero, come quelle dei bambini. Ma la mia ha tre piani, l’acqua, la luce, il telefono, la parabola satellitare».

A Managua attaccano l’energia elettrica a un albero?
«Certo. Tutto regolare».

Lavoravi?
«Ho lavorato in una agenzia di pubblicità con Gabriele Pillitteri, fratello dell’ex sindaco di Milano. Poi abbiamo portato in Nicaragua degli aliscafi russi. Flop tutti e due. Alla fine ho comprato un po’ di terra che ho rivenduto. È andata meglio. E sono diventato biscazziere. Ho il 50 per cento di un piccolo casinò».

Sei tornato a fare soldi.
«La mia parte oscilla da 5 mila a 20 mila dollari al mese».

Giravi con un giaguaro al guinzaglio.
«Balle».

Hai comprato la cittadinanza in Belize.
«Mi è costata 20 mila dollari».

Hai comprato un passaporto falso.
«Sono stato assolto da questa accusa».

Perché sei tornato?
«Per mia madre e per riconquistare l’onore perduto».

Oggi politicamente che cosa sei?
«Vedo un Paese impegolato in una deriva autoritaria, dove, con le migliori intenzioni, Berlusconi realizza la sua visione del mondo».

Deriva autoritaria? Intendi dire regime?
«Ci sono i presupposti. E più insistono, più si crea il regime».

Insistono, chi?
«La sinistra. I giudici».

Se potessi votare?
«Io sono un uomo di sinistra, ma oggi mi sento più garantito da Berlusconi che da Rutelli».

Tu avevi la sensazione che il Psi di Bettino esagerasse?
«L’arroganza del potere c’era nei socialisti. Ma Bettino non era come i suoi colonnelli. I camerieri filippini in guanti bianchi, in ville lussuose con quadri antichi alle pareti pagate dal partito erano una scena più ridicola e farlocchia che arrogante».

Che mi dici del famigerato «tesoro» di Bettino?
«Dico che Raggio ha restituito un po’ di soldi, ma non tutti. Un dato: per tenere in piedi il partito erano necessari 80 miliardi all’anno.

Craxi era circondato da adulatori.
«ll più grande era Giuliano Amato. Voltagabbana istituzionale. Non sapeva da dove venivano i soldi? Come diceva Bettino: “Mente per la gola”. Di lui mi è rimasta impressa un’immagine. Seduti sui gradini dell’università di Palermo aspettiamo Bettino. Si sente un rumore di macchina, lui fa un balzo, si mette a correre, apre la portiera, si inchina: “Ah, caro Bettino!”. Ma anche Martelli non scherzava. Lo ha mollato facendo il patto con i magistrati. Ai funerali di Bettino l’ho incontrato: “Ah, caro Francesco”. “Ma quale caro Francesco, quando mi hanno arrestato hai detto che non mi conoscevi”. Attorno a Bettino c’era una corte di nani e ballerine. Caduto Craxi si sono squagliati».

Anche tu facevi parte dei nani e delle ballerine.
«No. Bettino mi ha sempre protetto da queste cose. Lui i nani e le ballerine li disprezzava».

Chi ricordi?
«Alda D’Eusanio. Era una pasionaria. Era anche muccioliniana».

Muccioli era un concorrente per te?
«Teorizzava l’opposto di quello che facevamo noi. Certo che all’inizio aveva fatto troppo il santone. Un giorno io e Rostagno gli dicemmo: “Tu avevi le stimmate, che facevi, ti tagliavi?”. E lui disse: “Che dovevo fare?”».

Ipotesi: se sulla torre ci fossero Berlusconi e Craxi, chi butteresti?
«Facile, salvo Bettino. Dopo Mussolini, è stato l’uomo politico italiano più importante del XX secolo secondo me. Ma Berlusconi non è antipatico».

Lo conosci?
«Qualche cena insieme a Bettino. Una volta, nel solito ristorante sui Navigli, Berlusconi mi guardò e disse: “Ma lei lo sa caro Cardella che sembra proprio un profugo polacco che beve il caffellatte?”. Silenzio. Tutti imbarazzati. E io gli risposi: “Silvio ti sbagli. Io non sembro, io sono un profugo”».”


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