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E quel che ne risultò

Creato il 30 ottobre 2011 da Unarosaverde

Cosa vi dico? Come vi racconto?

Potrei descrivervi una teoria di eventi che sono accaduti nella mia settimana di compleanno: “dalle nove alle undici di lunedì ho fatto questo, dalle tre alle sei di giovedì quest’altro”.

Potrei raccontarvi delle persone che ho incontrato, di quelle nuove e di quelle vecchie, e delle conversazioni, tutte intense, talmente intense che mi stanno ancora girando per la testa e lì rimarranno per i giorni a venire.

Potrei stilarvi un elenco delle cose che avevo deciso avrebbero dovuto succedere e sono successe, di quelle che non sono accadute, seppure progettate, e di quelle che invece hanno preso il loro posto.

Potrebbe piacervi, potrei scrivere in modo che vi possa piacere, anche se alcuni di questi avvenimenti sono stati esaltanti, ilari mentre altri, uno in particolare, profondamente tristi. Ma cosa ci sarebbe di particolare nel raccontarli? Non sono forse, nel mondo piccolo della mia settimana di compleanno, le cose che capitano a ciascuno di noi?

No, niente resoconti, nessuna cronaca. Vi dirò invece di alcune conclusioni alle quali sono arrivata e che credo, per il modo in cui adesso sono, come persona, io possa definire definitive, inglobate nelle fondamenta dei 39 anni, supporto per la strada che vedo davanti a me. Alcuni piccoli pezzi del puzzle hanno trovato collocazione, nei giorni scorsi.

Vi scrivevo qui e qui che da qualche tempo a questa parte sto cercando di capire se e come posso contribuire a cambiare le cose, in questo strano Paese, per quanto riguarda la condizione delle donne. Ci ho pensato, ho letto, mi sono informata, ho ascoltato. In questo fine settimana a Torino si sta svolgendo il primo Fem Blog Camp. Ho seguito per curiosità, e continuo a farlo, i lavori di organizzazione del raduno ma ho deciso di non partecipare. Auguro a tutte le donne che in questi mesi hanno investito tempo e preziose energie in questo progetto di trovare il modo di essere ascoltate, di poter far sentire la propria voce. Sono sicura che riusciranno, ma questa non è la mia strada. Non sono mai stata barricadiera,  non riesco a trovarmi a mio agio in mezzo a termini di derivazione politica. Non so cosa sia l’antispecismo, non voglio neppur sentire nominare il nazifascismo, non riesco a fingere di capire che cosa sia la precarietà, io che non l’ho mai vissuta. Non ho parole che possano aggiungere valore a quelle che saranno pronunciate da persone molto più competenti di me. La mia via non può che passare attraverso quello che faccio ogni giorno. Non sono una dirigente, non comando plotoni e moltitudini. Sono qui, in una minuscola terra di mezzo, in una provincia che nemmeno si sa dove sia, sulle cartine geografiche, nella quale sono spesso sola, perché davanti di donne ce ne sono pochissime e dietro ne vedo arrivare ancora di meno. Faccio quello che posso perché un giorno si possa dire: “è stata brava, altre lo possono essere molto più di lei, apriamo la porta e lasciamole entrare”. Continuerò a farlo e cercherò, per il poco delle abilità che possiedo, di aiutare a tenerla aperta, quella porta, una delle tante che si trovano lungo il cammino che conduce alla stanza dei bottoni perché, fino a quando non saremo in molte, sedute intorno al tavolo di quella stanza, le decisioni saranno prese sempre e solo dagli uomini per definire un mondo che oggi rappresenta l’umanità solo per metà. Ad un certo punto, durante la settimana, mi sono guardata intorno: ero circondata da donne in gamba, competenti, appassionate, pronte a partecipare al gioco, disposte a mettersi a nudo, così brave, così mature che mi sono sentita piccola, io, tutta arrotolata in infantili timori. Non può non esserci spazio per loro, che si sono guadagnate con l’impegno e l’intelligenza le sedie che occupano e che stanno chiamando altre, accanto a sé. Non può non esserci spazio per le tante che, come e più di loro, stanno premendo alla porta d’entrata, non per denaro, non per potere, ma per passione.

La seconda conclusione vi suonerà come l’ennesima scoperta dell’acqua calda ma ve la scrivo lo stesso. Noi siamo il nostro peggior nemico. Siamo noi che non allunghiamo la mano per prenderci quello che desideriamo, per paura, per mancanza di autostima, per abitudine, per frustrazione dopo mille no già sentiti. Crescere significa accettare queste paure e superarle. Nei giorni scorsi ho picchiato il naso per l’ennesima volta in una di queste paure, forse la peggiore che mi sono cucita addosso. Avete mai parlato in pubblico, davanti ad estranei? Io si, alcune volte, senza nessuna preparazione, andando a braccio, alla discussione della tesi, per esempio o davanti a settanta maschi adolescenti per un anno di fila, quando insegnavo. Gli inizi sono pessimi, poi di solito mi ripiglio. Questa volta c’era la telecamera e sapevo che, dopo, avrei dovuto rivedermi. Io ho un serissimo problema di immagine corporea: la mia testa dice ” sono così”, quando mi vedo esclama “io non sono quella”. Sono stata brava: ho detto le cose che dovevo dire, decentemente, nei tempi giusti. Il mio corpo però non se ne è reso conto: era rannicchiato e chiuso, a forma di palla, statico e rigido e ha definito, con forza, il risultato finale, come sapevo sarebbe successo. Quello che voglio essere, quello che non mi permetto di essere. Eppure non ho niente di orripilante. Auguratemi buona fortuna: qui mi sto armando di vanga e piccone e sto partendo per un viaggio dentro di me in cui conto di far pulizia, chiudere le vene esaurite e portare alla luce nuovi filoni ma c’è molto buio nelle gallerie e non devo perdere di vista il filo d’Arianna.

La terza non è una conclusione, è solo un pensiero. Quando il dolore arriva, immenso e straziante, ci investe completamente, permea ogni istante del nostro tempo, ogni cellula del nostro corpo. Copre di nero i colori del mondo, nasconde i nostri desideri, spegne le nostre passioni, insinua nel nostro cervello la sua voce monotòna. Ci dice in continuazione che abbiamo perso qualcuno senza il quale è impossibile trovare di nuovo il senso di noi stessi. Possiamo lasciare che occupi indefinitamente i nostri giorni e si radichi sempre di più in ogni nostra minuscola fibra annullando ogni altra cosa. Oppure possiamo lasciarlo entrare, concedergli il tempo per conoscerci bene e poi indicargli un angolo di noi nel quale accomodarsi, insieme agli altri dolori che già ci sono e che ancora verranno. “Resta qui, resta con me, non posso fingere che tu non ci sia, costante, in ogni singolo istante della mia vita, a ricordarmi di quello che avevo e che adesso ho perduto e che adesso mi manca e che adesso rivoglio”. Possiamo però mettergli davanti una tela grandissima e riempirla di tutto l’amore che abbiamo ricevuto, dei giochi da bambini, delle risate, degli abbracci, dei litigi, dei colori, delle parole, di ogni altra cosa che colui che abbiamo perso ci ha regalato. E aspettare che faccia ogni giorno un po’ meno male.  La poesia del post di ieri è una dedica, per una persona che adesso deve accettare l’arrivo del nero, e per me stessa, che ho cominciato a riempire la tela. E no, non si commentano le poesie. Uno scrittore ci racconta di un tempo univoco, definendo i confini. Non è forse invece un poeta colui che parla per se stesso e, contemporaneamente, per ognuno di noi, in infiniti modi diversi, regalandoci immagini e sensazioni, attraverso le parole, che trascendono la dimensione oggettiva e siano nostre, nel modo in cui le collochiamo in noi stessi?

Buona domenica e buon ponte, per chi lo fa: oggi per me c’è il sole, una passeggiata al fiume, le vasche lunghe in piscina, qualche chiacchierata e, implacabile come al solito, il tormentone dei compiti di tedesco.


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